Importanti novità normative in materia di contrasto alle pratiche commerciali sleali nei rapporti tra le imprese della filiera agricola e alimentare sono state introdotte dal Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 198, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 285 del 30 novembre 2021 ed entrato in vigore il 15 dicembre 2021.
Con tale decreto il legislatore ha voluto dare attuazione alla Direttiva (UE) 2019/633 del 17 aprile 2019, che garantisce un livello minimo di tutela comune a tutta l’Unione europea, al fine di contrastare tutte le pratiche che differiscono dalla buona condotta commerciale nelle relazioni tra acquirenti e fornitori di prodotti agricoli ed alimentari, ossia quelle imposte unilateralmente da un contraente alla sua controparte in violazione dei principi di correttezza e buona fede.
La nuova normativa ha previsto l’abrogazione dell’articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012 n. 27, con l’intenzione di razionalizzare e rafforzare il quadro giuridico vigente per fornire una maggiore tutela dei fornitori e degli operatori della filiera agricola e alimentare rispetto alle suddette pratiche.
Il decreto, che si applica alle cessioni di prodotti agricoli e alimentari eseguite da fornitori stabiliti sul territorio nazionale, indipendentemente dal fatturato, e con esclusione dei contratti di cessione conclusi direttamente tra fornitori e consumatori, ha introdotto un sistema di norme imperative che prevalgono sulle eventuali discipline di settore con esse contrastanti, qualunque sia la legge applicabile al contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari (art. 1, D.lgs. 198/2021).
È interessante pertanto analizzare il contenuto del D.lgs. 8 novembre 2021, n. 198, partendo dalla previsione dedicata all’individuazione dei principi e degli elementi essenziali dei contratti di cessione.
Si tratta dell’art. 3, che dispone che il contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari deve essere obbligatoriamente concluso mediante atto scritto stipulato prima della consegna e deve indicare la durata, la quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. Assolvono l’obbligo della prova scritta le seguenti forme equipollenti: i documenti di trasporto o di consegna, le fatture e gli ordini di acquisto con i quali l’acquirente commissiona la consegna dei prodotti.
In merito alla durata del contratto, la disposizione in commento precisa che essa non può essere inferiore a dodici mesi, salvo le deroghe espressamente previste. In particolare, tale norma non si applica nel caso di contratti di cessione aventi ad oggetto attività di somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio, si pensi per esempio a ristoranti e bar per i quali è difficile stabilire annualmente le forniture in ragione della stagionalità dell’attività.
Ma quali sono le pratiche commerciali vietate in quanto ritenute scorrette?
L’art. 4, comma 1 prevede un elenco piuttosto ampio di pratiche commerciali sleali.
Tra queste vale la pena citare innanzitutto il ritardato versamento del corrispettivo, che per i prodotti agricoli e alimentari deperibili non può avvenire oltre trenta giorni dal termine del periodo di consegna, mentre per i prodotti non deperibili oltre 60 giorni dal termine del periodo di consegna.
In caso di mancato rispetto dei termini di pagamento, lo stesso articolo, al comma 2, prevede che siano dovuti al creditore gli interessi legali di mora che decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine. Inoltre, è previsto che il saggio degli interessi venga maggiorato di 4 punti percentuali e sia inderogabile. Pertanto, il tasso di interesse risulta pari al 12%, ossia 8% di interesse legale di mora a cui va aggiunto il 4% di maggiorazione ai sensi del citato articolo di legge.
Non si tratta di una novità, posto che tale disposizione era già prevista anche dall’art. 62 c. 3 del d.l.1/2012, che come si è detto, è stato abrogato dal decreto legislativo in commento.
Tra le pratiche sleali vietate rientrano poi:
- l’annullamento da parte dell’acquirente, di ordini di prodotti agricoli e alimentari deperibili con un preavviso inferiore a 30 giorni;
- la modifica unilaterale, da parte dell’acquirente o del fornitore, delle condizioni di un contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari, con riferimento a frequenza, metodo, luogo, tempi e modalità della fornitura, quantitativi, termini di pagamento, prezzi e prestazione di servizi accessori;
- la richiesta al fornitore, da parte dell’acquirente, di pagamenti che non sono connessi alla vendita dei prodotti agricoli e alimentari;
- l’addebito al fornitore dei costi per il deterioramento dei prodotti agricoli e alimentari quando tale deterioramento non sia stato causato da colpa o negligenza del fornitore stesso;
- l’inserimento, da parte dell’acquirente, di clausole contrattuali che obbligano il fornitore a farsi carico dei costi per il deterioramento o la perdita di prodotti agricoli e alimentari che si verifichino presso i locali dell’acquirente o comunque dopo che tali prodotti siano stati consegnati;
- l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione illecita, da parte dell’acquirente, di segreti commerciali del fornitore ai sensi del decreto legislativo n. 63/2018 che ha recepito la Direttiva (UE) 2016/943 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti;
- le minacce di ritorsioni commerciali;
- le richieste di risarcimento, da parte dell’acquirente, dei costi sostenuti per l’esame dei reclami dei clienti.
L’art. 4, c. 4 stila poi un elenco di pratiche commerciali vietate, salvo che siano state precedentemente concordate dalle parti nel contratto di cessione o nell’accordo quadro in termini chiari e univoci. Tra queste si citano la richiesta al fornitore di restituire i beni invenduti senza corrispondere alcun pagamento per gli stessi o per il loro smaltimento, nonché le richieste di farsi carico dei costi degli sconti, della pubblicità, del marketing e del personale impiegato per organizzare gli spazi di vendita dei prodotti del fornitore.
Infine, all’art. 5, sono vietate ulteriori pratiche commerciali scorrette, alcune delle quali erano già menzionate nella disciplina previgente (art. 62 d.l. 1/2012).
Tra queste si ricordano:
- l’acquisto di prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso;
- l’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente gravose per il venditore, tra cui quella di vendere prodotti agricoli e alimentari a prezzi al di sotto dei costi di produzione;
- l’applicazione di condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti;
- l’esclusione dell’applicazione di interessi di mora a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti;
- l’imposizione all’acquirente, da parte del fornitore, di prodotti con date di scadenza troppo brevi rispetto alla vita residua del prodotto stesso, stabilita contrattualmente.
Particolarmente interessante è inoltre la disposizione contenuta nell’art. 7, che dispone che “la vendita sottocosto dei prodotti agricoli e alimentari freschi e deperibili è consentita solo nel caso di prodotto invenduto a rischio di deperibilità oppure nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta”. È fermo in ogni caso il divieto di imporre contrattualmente al fornitore, salvo sua negligenza, i costi relativi al deperimento o alla perdita dei prodotti venduti sottocosto.
In caso di violazione, è previsto che il prezzo stabilito dalle parti venga sostituito di diritto con il prezzo risultante dalle fatture d’acquisto oppure, in difetto, dal prezzo calcolato sulla base dei costi medi di produzione rilevati da ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo alimentare). In argomento si pensi ad esempio al prezzo del latte riconosciuto ai produttori stante la determinazione da parte di ISMEA di un costo di produzione pari a 50 centesimi di Euro per litro.
Individuate quali sono le pratiche commerciali ritenute sleali e dunque vietate, vale la pena soffermarsi sugli artt. 8 e 9 del decreto in commento, relativamente all’Autorità nazionale deputata all’accertamento della violazione delle disposizioni concernenti i principi e gli elementi essenziali dei contratti di cessione, nonché delle pratiche commerciali sleali e all’irrogazione delle relative sanzioni amministrative.
Si tratta dell’ICQRF, ossia l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari del MiPAAF.
L’ICQRF può agire d’ufficio o sulla base di una denuncia da parte del soggetto interessato e, su esplicita richiesta, si impegna a tutelare sia l’identità del denunciante o del soggetto che si ritiene essere stato leso da una pratica commerciale sleale vietata, sia qualunque informazione che divulgata potrebbe ledere gli interessi del denunciante o del soggetto leso.
L’ICQRF, nell’esercizio della sua attività, può avvalersi del Comando dei Carabinieri per la tutela agroalimentare nonché della Guardia di finanza. In ogni caso restano in capo all’Autorità garante della concorrenza del mercato (AGCM) le competenze e le funzioni per l’accertamento e la repressione delle pratiche commerciali scorrette.
Infine, in merito alle sanzioni amministrative previste per la violazione delle disposizioni sinora citate si rimanda all’art. 10. Si tratta di una disciplina sanzionatoria alquanto gravosa, se si pensa che in alcuni casi la pena può arrivare fino al 5% del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio precedente all’accertamento e che i minimi di importo partono da 1.000 euro fino a raggiungere i 30.000 euro. La misura della sanzione è diversamente determinata in base al valore dei beni oggetto di cessione o al valore del contratto ovvero al beneficio ricevuto da chi ha commesso la violazione nonché all’entità del danno provocato all’altro contraente.
Lo studio legale resta a disposizione di ogni interessato per chiarire ogni eventuale dubbio sulla questione.
Avv. Marcello Maria BOSSI
Dott.ssa Beatrice PEDAVOLI