La deducibilità della perdita sui crediti e il recupero dell’Iva nei confronti del debitore fallito

Una problematica sempre attuale per le imprese riguarda la gestione contabile e fiscale dei crediti verso i debitori falliti.

Due sono i profili di rilevanza per i creditori insoddisfatti (in tutto o in parte), che abbiano partecipato alla procedura fallimentare:

                1) il primo attiene alla possibilità di far valere le perdite sui crediti ai fini di una deduzione fiscale;

                2) il secondo attiene alla possibilità di recuperare l’imposta versata a seguito dell’emissione e registrazione delle fatture rimaste insolute.

Quanto al primo profilo, l’art. 101, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, (di seguito T.U.I.R.) stabilisce che le perdite sui crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e, in particolare, sono sempre deducibili se il debitore è soggetto ad una procedura concorsuale. In caso di fallimento, dunque, il legislatore esime il creditore dall’onere di provare la definitività dell’insolvenza e il preciso ammontare della stessa. Entrambi gli elementi sono presunti dalla legge.

Quanto all’importo massimo della deduzione e alle modalità con cui l’operazione deve essere trattata in bilancio, l’art. 106 del T.U.I.R. stabilisce che la deduzione può avere riguardo alla sola parte che eccede l’ammontare dell’eventuale relativo fondo svalutazione presente in bilancio. Prima di imputare a conto economico una perdita sui crediti, dunque, è necessario utilizzare il relativo fondo svalutazione, laddove sia stato stanziato, fino ad esaurimento.

Il dettato delle norme appena menzionate non da adito a dubbi interpretativi. Al contrario, numerose perplessità sorgono per le questioni che non sono oggetto di specifica previsione.

Particolarmente dibattuta è la questione della collocazione temporale della deduzione rispetto alla procedura fallimentare. Nessuna norma, infatti, espressamente stabilisce quando la deduzione debba essere attuata.

In proposito, la dottrina propende per la deducibilità della perdita a partire dalla data del fallimento e, se del caso, anche negli esercizi successivi a quello di inizio della procedura. Elemento determinante ai fini dell’imputabilità della deduzione sarebbe la definitiva e certa conoscenza, da parte del creditore, dell’impossibilità di recuperare il credito. Siffatta conoscenza ben potrebbe maturare nel corso della procedura, formandosi anche gradualmente rispetto all’importo del credito sino, in caso di assoluta incertezza, alla chiusura del fallimento.

La giurisprudenza, dal canto suo, con le ultime pronunce (Cass. Civ., Sez. V, 29/10/2010, n. 21135; Cass. civ. Sez. V, 01/06/2012, n. 8821; Cass. civ. Sez. V, 21/04/2011, n. 9218; Cass. civ. Sez. V, 23/12/2014, n. 27296) ha sostenuto che la deduzione debba essere imputata, a prescindere dallo stato della procedura concorsuale, all’anno di imposta in cui si acquista la certezza che il credito non possa essere più soddisfatto.

Parimenti, le prospettate soluzioni trovano conforto nella posizione assunta dalla Associazione Italiana Dottori Commercialisti – Commissione Norme di Comportamento e di Comune Interpretazione in Materia Tributaria, norma di comportamento n. 172, rubricata “Perdite sui crediti: deducibilità in caso di fallimento o procedure concorsuali”.

In definitiva, secondo questa ricostruzione:

  1. l’obbligo di operare la deduzione sorge nell’anno del fallimento limitatamente a quanto sia obiettivamente presumibile non possa essere recuperabile;
  2. la quota residua, che si ritiene possa essere pagata in moneta fallimentare, potrà essere dedotta solo quando sia certo che non troverà più soddisfazione.

Quanto al secondo profilo, attinente al recupero dell’I.V.A. delle fatture insolute, l’art. 26, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 prevede la possibilità per il contribuente di portare in detrazione l’imposta addebitata al fallito, “per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali”. Ai sensi dell’art. 19 dello stesso D.P.R. cui l’art. 26 espressamente rimanda, la detrazione può essere esercitata, “… al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto e alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo.”.

Anche con riguardo al problema della detrazione dell’imposta sul valore aggiunto in caso di fallimento, si registra un fervido dibattito in merito alla precisa definizione temporale del momento in cui la detrazione possa essere operata.

L’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza si sono dimostrate assolutamente ferme nell’ammettere la detrazione alla chiusura del fallimento, anche e soprattutto alla luce dell’ultima modifica dell’art. 26 del D.P.R. citato, intervenuta con la cd. ‘Legge di Bilancio 2017’ (articolo 1, comma 567, della Legge n. 232/2016).

In caso di fallimento, quindi, la detrazione deve essere operata con nota di variazione alla scadenza dei termini per proporre osservazioni al decreto con cui è reso esecutivo il piano di riparto o, in mancanza, al termine per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento.

Peraltro, si segnala che la recentissima pronuncia della Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 23/11/2017, n. 246/16 ha statuito che uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni.

Concludendo, il creditore:

                – non appena ricevuta la notizia del deposito della sentenza dichiarativa del fallimento, potrà rilevare la perdita sui crediti nell’esercizio corrente al momento della dichiarazione di fallimento in quanto, dal punto vista civilistico, sono sorte le condizioni per la svalutazione del credito;

                – successivamente, potrà decidere di depositare istanza di ammissione al passivo fallimentare e in questo caso dovrà attendere il piano di riparto finale per emettere la nota di credito che consente il recupero dell’I.V.A. che verrà contabilizzata come sopravvenienza attiva.

Avv. Marcello Maria BOSSI

Avv. Alessia GOLZIO

Torino

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