Il licenziamento del dipendente pubblico per peculato è sempre legittimo?

In tema di esercizio del potere disciplinare attribuito al datore di lavoro, ha da sempre rivestito una posizione centrale il principio, contenuto nell’art. 2106 cod. civ., di proporzionalità e adeguatezza della sanzione irrogata rispetto alla gravità del fatto addebitato al lavoratore.

La proporzionalità e l’adeguatezza della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo (come ad es. sanzioni penali e amministrative), in quanto principio basilare, “primordiale” e onnipresente, valevole, in tutti gli ordinamenti.

La regola della proporzionalità tra fatto e sanzione trasfusa nell’art. 2106 c.c. sono valide tanto nell’impiego privato quanto nel pubblico impiego privatizzato.

Con riferimento al pubblico impiego occorre premettere che, a prescindere dalla contrattualistica nazionale, le parti sociali si sono sempre preoccupate di richiamare l’inderogabile principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni necessariamente da comminare in relazione alla gravità della mancanza e tale principio è stato ripetutamente ribadito e tutelato dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità e merito intervenuta in materia che hanno sempre escluso, in particolare, la possibilità che l’Amministrazione potesse comminare sanzioni espulsive in modo automatico ancorché il dipendente avesse subito condanne penali  [1].

Il doveroso rispetto da parte dell’Amministrazione dei citati principi di gradualità e proporzionalità è, peraltro, confermata anche per l’ipotesi del dipendente che sia stato ritenuto colpevole con sentenza passata in giudicato per i delitti previsti dall’art. 3, comma I, della L. 27.03.2001, n.97 tra i quali rientra il reato di peculato, atteso che l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego da parte dell’Ente Pubblico, “può” (e non deve) essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare, occorrendo sempre una valutazione in concreto di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi sottesi alla fattispecie. [2]

Il giudice di merito deve pertanto, nella valutazione in concreto che va ad operare, osservare quei canoni di valutazione e giudizio che dovrebbero riflettere le garanzie fondamentali della persona del lavoratore (quali l’esigenza che nessuna sanzione venga adottata in violazione del principio “audietur et altera pars” nonché dei canoni di effettiva lesività dell’interesse del datore di lavoro e di proporzionalità e adeguatezza rispetto alla mancanza addebitata) e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale in funzione delle esigenze di economicità dei giudizi e di salvaguardia dei principi di imparzialità, correttezza ed efficacia dell’azione della P.A. anche quale datore di lavoro pubblico [3].

In sintesi, la Suprema Corte ha precisato come spetti al Giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura ed alla tipologia del rapporto medesimo”[4].

Richiamato ancora il principio di diritto secondo cui “anche laddove fosse stata prevista nel contratto collettivo una ipotesi di giusta causa di licenziamento [per il comportamento contestato], essa [comunque] non vincola il Giudice, dovendo quest’ultimo verificare sempre, stante l’inderogabilità della disciplina del licenziamento, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. e se, in guisa al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di una entità tale da giustificare e legittimare il recesso, in considerazione anche dell’elemento intenzionale che ha supportato la condotta del dipendente” [5], è chiaro pertanto e in conclusione come l’Amministrazione, anche in presenza dei reati indicati nell’art. 3, comma I, della L. n. 97/2001, possa comminare il licenziamento senza preavviso solo dopo aver esperito una compiuta disamina in concreto dei seguenti elementi:

  1. l’intenzionalità del comportamento;
  2. la rilevanza degli obblighi violati;
  3. le responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente;
  4. il grado di danno o di pericolo causato all’ente, agli utenti o a terzi ovvero al disservizio determinatosi;
  5. la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore, ai precedenti disciplinari nell’ambito del biennio previsto dalla legge, al comportamento verso gli utenti;
  6. il concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra di loro,

elementi tutti necessari a comprendere se il venir meno del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore evocato ad unico motivo del licenziamento sia o meno effettivamente sussistesse.

 Avv. Mattia Angeleri 

RIFERIMENTI:

[1] Art. 9, comma 1, L 07/02/1990 n. 19 recita: “Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge”. Tale principio è stato alla base delle pronunce di costituzionalità, legittimità e merito, tra le quali si ricorda Corte Cost 15.12.2016, n. 268; Corte Cost. 27.04.1993, n. 197; Corte Cost. 14.10.1988, n. 971; Cass. Sez. Lavoro 9.07.2009, n. 16153; Trib. Torino, Sez. Lavoro 12.10.2009.

[2] Corte Cost., sent. n. 971/1988; Corte Cost., sent. n. 197/1993.

[3] Cass. Civ., Sez. Lav., 19.01.2011, n. 1141

[4] Cass. Civ., Sez. Lav., 13.02.2012, n. 2013

[5] Cass. Civ., Sez. Lav., 29.06.2016, n. 18858; Cass. Civ., Sez. Lav., 18.09.2012, n. 15654; Cass. Civ., Sez. Lav, 26.04.2012, n. 6498; Cass. Civ., Sez. Lav., 03.01.2011, n. 35; Cass. Civ., Sez. Lav., 19.10.2007, n. 21965; Cass. Civ., Sez. Lav., 27.09.2007, n. 20221.

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