Diritto del lavoro

  • La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3237 del 10 febbraio 2011, ha affermato che il verbale di conciliazione non può ritenersi qualificabile agli effetti di cui all'art. 411 c.p.c. nelle ipotesi in cui non risulti sottoscritto in sede sindacale né dal rappresentante sindacale alla presenza ed in contestualità del lavoratore. In tali ipotesi, ha precisato la Corte, non può attribuirsi al menzionato documento quella funzione di supporto che la legge riconosce al sindacato nella fattispecie conciliativa.

  • Con l'iscrizione, gli alunni sono affidati all'amministrazione scolastica, che esplica il proprio servizio attraverso il personale - docente e non - e mediante la messa a disposizione dei locali dell'istituto. La Corte di Cassazione ha affermato, con la sentenza n. 3680 del 15 febbraio 2011, che dall'iscrizione deriva a carico della scuola l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Quindi, anche l'obbligo di vigilare, predisponendo gli accorgimenti necessari a seconda della conformazione dei luoghi, affinchè nei locali scolastici non si introducano terzi (persone o animali) che possano arrecare danni agli alunni. Ne deriva che, nelle controversie per il risarcimento del danno da lesioni riportate all'interno dei locali e pertinenze (come nel caso di specie il cortile antistante l'edificio scolastico) messi a disposizione dalla scuola, lo studente deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l'amministrazione ha l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile, essendo stati predisposti gli accorgimenti idonei ad impedire il verificarsi del danno.

  • Il T.A.R. Lazio con sentenza n. 2222 del 11 marzo 2011 ha definito  illegittimo il provvedimento, adottato dalla competente Autorità Amministrativa, recante il diniego di conversione del permesso di soggiorno per la minore età dello straniero che abbia nel mentre raggiunto la maggiore età, in permesso di soggiorno per lavoro subordinato, qualora avente fondamento sulla riscontrata carente partecipazione del minore ad un progetto di integrazione sociale e civile di durata almeno biennale, come richiesto in seguito alla novella apportata dallalegge n. 94 del 2009, ma ciò non sia stato in concreto possibile. (Nella specie il ricorrente, pur avendo fatto domanda di permesso di soggiorno successivamente all'entrata in vigore della modifica normativa apportata dallalegge n. 94 del 2009, non aveva di fatto avuto a disposizione il tempo minimo necessario per maturare il suddetto biennio per cui, non trovandosi nelle condizioni previste ai fini della applicazione della nuova disciplina, non poteva essere destinatario di un provvedimento di diniego per le ragioni di cui innanzi).

     

  • La Corte di Cassazione con sentenza del 21 dicembre 2010 n. 25859 ha riaffermato il principio di diritto secondo cui lo scambio di prestazioni di lavoro domestico, rese da una straniera alla famiglia, contro vitto, alloggio e retribuzione pecuniaria sia pur modesta da luogo a rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto cosidetto alla pari, richiesti dalla L. 18 maggio 1973, n. 304.

  • Con sentenza n. 9769 del 4 maggio 2011 la Corte di Cassazione ha stabilito che, una volta che il datore di lavoro abbia ritenuto sussistenti, in una determinata unità produttiva e con riguardo a specifiche mansioni, l'esigenza di prestazioni a tempo parziale nonchè l'utilità di prestazioni lavorative così rese, la decisione di concedere o negare la trasformazione del rapporto a part-time non è più discrezionale, bensì vincolata ai criteri prestabiliti in sede di accordo collettivo, ai quali il datore di lavoro deve conformarsi nella regolamentazione dei singoli rapporti, facendo applicazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto (ex artt. 1175 e 1375 c.c.). Con la conseguenza che l'inosservanza dei criteri preferenziali contrattualmente stabiliti legittima il dipendente che si ritenga leso dalla condotta datoriale ad agire per il risarcimento del danno, anche in forma specifica, per ottenere la trasformazione del rapporto in part-time che gli fosse stata ingiustamente negata sulla base dei descritti criteri, oltre ad eventuali altre voci di danno collegate allo stesso illecito.

  • Con la sentenza n. 7524 del 23.03.2017 la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui il licenziamento dell'invalido, assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza della perdita totale della capacità lavorativa, ovvero di una situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti.
    Il Collegio ha sottolineato, inoltre, che il relativo accertamento compete all'apposita commissione medica alla quale spetta, altresì, la verifica circa l'impossibilità di reinserire, anche attuando i possibili adattamenti all'organizzazione del lavoro, il disabile all'interno dell'azienda.

  • L’art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008, rubricato delega di funzioni, sottolinea come il datore di lavoro possa delegare ad un soggetto terzo le funzioni di prevenzione e protezione dei rischi per i lavoratori sul posto di lavoro «con i seguenti limiti e condizioni:

    1. che essa risulti da atto scritto recante data certa;
    2. che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
    3. che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
    4. che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
    5. che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.

    Alla delega di cui al comma 1 deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità».

    L’art. 17 del medesimo decreto, pone in essere delle limitazioni a tale delega, ritenendo che il datore di lavoro «non possa delegare:

    1. la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall'articolo 28;
    2. la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi».

    In merito all’individuazione del datore di lavoro con riferimento alle società di capitali, è necessario evidenziare come questo sia da ricercarsi nel consiglio di amministrazione o nell’amministratore unico e, come, il principio generale in tema di responsabilità penale preveda come «la delega di funzioni - ora disciplinata precipuamente dall'art. 16 T.U. sulla sicurezza - non escluda l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite e come, tuttavia, detta vigilanza non possa avere per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante - concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato; ne consegue che l'obbligo di vigilanza ex art. 40 c.p. del delegante è distinto da quello del delegato - al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo - e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni» (Cassazione penale sez. IV, 21/04/2016, n.22837).

    Principio generale nelle società di capitali è che, dunque, laddove la delega riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espressa ed effettiva, non equivoca ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (in tal senso, Cass. Sez. U. Sentenza n. 38343 del 24.4.2014), gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravino indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega validamente conferita della posizione di garanzia. 

    Tali componenti, a seguito della delega, possono vedersi ridurre la portata della posizione di garanzia prevista ai sensi dell’art. 40 c.p. ma non escluderla interamente, poiché «non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento, che continua a gravare sul datore di lavoro»(Cassazione penale sez. IV, 11 dicembre 2007, n. 6280).

    Se la delega, sotto il profilo penalistico, riduce semplicemente gli obblighi in capo al datore di lavoro ma, come detto, non ne esclude la responsabilità (salvo che quest’ultimo provi di aver predisposto un completo ed efficiente sistema di controllo dell’attività del delegato) dal punto di vista della responsabilità civile la Cassazione, con ordinanza n. 12753/2019, ha rinnovato il suo orientamento in punto di delega delle funzioni di controllo in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, non escludendo la responsabilità civile del datore di lavoro per l’infortunio di un dipendente.

    In particolare, ad avviso della Suprema Corte, la delega delle funzioni di prevenzione e protezione, e quindi anche del controllo sull’osservanza delle stesse, non esonera il datore di lavoro dall’eventuale responsabilità civile per l’infortunio, essendo comunque necessario che il datore dimostri di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell'evento (Cass. 18 maggio 2007, n. 11622; Cass. 24 gennaio 2012, n. 944).

    Individuate tali responsabilità, è necessario sottolineare come l’art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008, al comma 2, preveda l’obbligo di adeguata e tempestiva pubblicità della delega effettuata.

    In merito ai requisiti richiesti per tale forma di pubblicità, la Cassazione ha evidenziato come la pubblicità della delega abbia quale scopo quello «di rendere certo laffidamento dellincarico a persona bene individuata, che lo abbia volontariamente accettato nella consapevolezza dellobbligo di cui viene a gravarsi, vale a dire quello di osservare e far osservare la normativa di sicurezza e, per altro verso, allo scopo di evitare indebite esenzioni e compiacenti sostituzioni di responsabilità»(Cass., Sez. IV pen., sentenza n. 39266 del 4.10.2011).

    Per tali motivi, il requisito di adeguata e tempestiva pubblicità si ritiene soddisfatto quando effettuato con mezzi che assicurino alla notizia notorietà all’interno del luogo di lavoro, in modo immediato e facile, come l'affissione dell’atto nei locali dell’azienda.

    Sul piano pratico, pertanto, la pubblicità può essere realizzata attraverso più modalità come, a titolo esemplificativo: avvisi aziendali (news, circolari, avvisi in bacheca), comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, comunicazione al medico competente, l’informazione ai lavoratori (mediante Internet/Intranet, e-mail, ecc.) nonché iscrizione nel registro delle imprese che, dunque, non è considerata quale elemento essenziale per l’efficacia della delega effettuata.

    Premesso quanto sopra, ad ulteriore riprova di quanto appena detto, il parere n. 31280 del 7 ottobre 2008 del Ministero dello sviluppo economico (“Cariche tecniche annotabili nel Repertorio economico amministrativo”), afferma, in merito al requisito dell’adeguatezza, che la pubblicità a terzi della delega di funzioni da parte del datore di lavoro, con riferimento agli adempimenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, non deve essere data mediante iscrizione della figura del delegato nel registro delle imprese, essendo invece sufficiente che se ne dia notizia all’interno del luogo di lavoro. Con tale nota il Ministero precisa, infatti, quanto segue: «il fatto che tale disposizione imponga lobbligo della pubblicità del nominativo del soggetto deputato alla sicurezza non comporta di per séche lo strumento più adeguato sia il registro delle imprese. Secondo il parere della scrivente, infatti, in questo caso è sufficiente che venga data notizia con mezzi che soddisfino una forma di pubblicità interna al luogo di lavoro. In tal modo linformazione risulta più efficace in quanto di apprendimento più facile e immediato».  

    In conclusione, dunque, è possibile evidenziare i seguenti principi:

    1. in materia di responsabilità penale, il datore di lavoro per andare esente da responsabilità, in presenza di delega avente i requisiti ex art. 16 D. Lgs. n. 80 del 2008, sarà comunque tenuto ad una corretta vigilanza sul soggetto delegato, dovendo porre in essere un completo ed efficiente sistema di controllo sulla correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato;
    2. in materia di responsabilità civile, il datore di lavoro non potrà invocare a propria scusante la delega delle funzioni di controllo ex art. 16 D. Lgs. n. 80 del 2008, essendo lo stesso sempre tenuto a fornire ai lavoratori i necessari strumenti di protezione per evitare qualsivoglia forma di infortunio. Il datore di lavoro è infatti tenuto ad imporre l’osservanza da parte dei lavoratori delle norme vigenti non potendo, neanche in presenza di delega, omettere di controllare i lavoratori dipendenti in merito al concreto utilizzo dei dispositivi di protezione;
    3. in merito alla adeguata pubblicità prevista ai sensi dell’art. 16 D. Lgs. n. 80 del 2008, l’iscrizione nel registro imprese delle deleghe sicurezza è ritenuta utile ma non certo né sufficiente né necessaria per la loro validità, dovendo il datore di lavoro provare che tali deleghe fossero adeguatamente conosciute all’interno dell’organizzazione aziendale.

    Dott. Mattia Angeleri 

  • La Corte di Cassazione con la sentenza del 29.08.2011 n. 17739 ha affermato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa qualora il furto sia di lieve entità e sia stato commesso da un dipendente che sino a tale evento aveva mantenuto un comportamento irreprensibile nei confronti del datore di lavoro. La Suprema Corte ritiene che, in applicazione del principio di proporzionalità della sanzione rispetto all'illecito commesso, nell'ipotesi sopra citata possa ritenersi sufficiente irrogare nei confronti del dipendente una sanzione conservativa, se del caso sospensiva, ma comunque di minore gravità rispetto al licenziamento.

  • Con la sentenza del 04.01.2013, n. 106 la Corte di Cassazione ha chiarito che ove il datore di lavoro comunichi il proprio recesso comminando un licenziamento, il rapporto deve considerarsi risolto fino a quando, ove si verta in regime di tutela reale, non intervenga una pronuncia di reintegrazione nel posto di lavoro L. n. 300 del 1970, ex art. 18.Non di meno è possibile nel regime della tutela reale che dopo un primo licenziamento individuale sia intimato un secondo licenziamento, parimenti individuale, per un diverso motivo condizionato, nell'efficacia, alla (eventuale) dichiarazione di illegittimità del primo.Affinché il secondo licenziamento sia legittimo occorre, peraltro, oltre all'espressa condizione sospensiva dell'efficacia del secondo recesso,  che si tratti di un motivo non solo diverso da quello posto a fondamento del primo licenziamento, ma anche sopravvenuto, nel senso di non noto in precedenza al datore di lavoro.Secondo la Suprema Corte nel caso di plurime inadempienze del lavoratore il datore di lavoro non può, quindi, allegarne una a giustificazione del licenziamento disciplinare per poi procedere, con contestazioni a catena, ad intimare ulteriori licenziamenti, pur condizionati nell'efficacia in modo sequenziale, fondandoli su altri addebiti già noti in precedenza.Inoltre, dopo un primo licenziamento individuale, il secondo licenziamento non può essere collettivo (né può consistere nel collocamento in mobilità) perché quest'ultimo è ex lege procedimentalizzato in termini tali da non consentire che ci sia un lavoratore licenziato sub condicione.

  • Con la sentenza n. 12352 del 17.05.2017 la Suprema Corte, richiamate le previsioni contenute nell’art. 6, commi I e II, L. n. 604 del 1966 secondo cui "il licenziamento deve essere impugnato entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione (in forma scritta)" e “l'impugnazione non è efficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale”, ha chiarito che tale secondo termine di decadenza, oggettivamente congruo e diretto ad una maggiore certezza dei rapporti giuridici tra lavoratore e datore di lavoro, non decorre sempre dalla scadenza del 60esimo  giorno dalla comunicazione del licenziamento. In particolare, nel caso in cui il lavoratore abbia provveduto liberamente ad impugnare il recesso con maggiore tempestività senza attendere il 60esimo giorno dalla comunicazione del recesso il secondo termine decorrerà dalla data di effettiva impugnazione stragiudiziale.

  • Con la sentenza del 21.11.2011, n. 24476 la Corte di Cassazione ha confermato che nel caso in cui la riduzione dell'orario di lavoro sia unilateralmente disposta dal datore di lavoro senza il consenso del lavoratore, non può ricadere su quest'ultimo l'onere di dimostrare di aver inutilmente messo a disposizione le proprie energie lavorative al fine di reclamare il pagamento delle restanti ore lavorative.La Suprema Corte ha affermato, di poi, che la nullità della clausola sul tempo parziale per difetto della forma scritta non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, determinandone semmai la  conversione in un contratto di lavoro a tempo pieno in ragione dell'inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale.

  • Con ordinanza n. 2774 del 5 febbraio 2018 la Corte di Cassazione ha affermato che, ai fini del riconoscimento della legittimità del contratto a tempo determinato, il rispetto della forma scritta - prevista ad substantiam, onde insuscettibile di esser provata a mezzo testi (cfr. Cass. n. 13393 del 2017) - della clausola appositiva del termine presuppone la avvenuta sottoscrizione del contratto stesso ad opera del lavoratore (cfr. Cass. n. 4418 del 2016), ovviamente in momento antecedente o contestuale all'inizio del rapporto. Non può, quindi, ritenersi sufficiente la consegna al predetto lavoratore del documento sottoscritto dal solo datore, poiché la consegna in questione – benché seguita dall'espletamento di attività lavorativa - non è suscettibile di esprimere inequivocabilmente una accettazione (peraltro irrilevante ove manifestata per fatti concludenti) della durata limitata del rapporto ma, plausibilmente, la semplice volontà del lavoratore di esser parte di un contratto di lavoro.

  • La Corte di Cassazione ha affermato, con la sentenza n. 17373 del 13 luglio 2017 ed in continuità con gli intendimenti precedenti, che in mancanza di una statuizione espressa il contratto di apprendistato disciplinato dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25, dà origine ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

    La L. n. 25 del 1955, art. 19, prevede, infatti, che in caso di mancata disdetta a norma dell'art. 2118 c.c., al termine del periodo di apprendistato l'apprendista sia "mantenuto in servizio" con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità e con il computo del periodo di apprendistato ai fini dell'anzianità di servizio del lavoratore. La stessa previsione normativa della disdetta ai sensi dell'art. 2118 c.c., cioè con periodo di preavviso, corrisponde all'esigenza, propria di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di evitare che la parte che subisce il recesso si trovi improvvisamente di fronte allo scioglimento del rapporto.

    Il contratto di apprendistato, pur nel regime normativo di cui alla L. n. 25 del 1955, è dunque da intendersi come un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale) mentre la seconda fase - soltanto eventuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2128 c.c. - rientra nell'ordinario assetto del rapporto di lavoro subordinato.

    Tale qualificazione non è contraddetta dalla L. n. 25 del 1955, art. 7 - a tenore del quale l'apprendistato non può avere una durata superiore a quella stabilita dai contratti collettivi di lavoro e, comunque, a cinque anni - giacché il termine finale della formazione professionale non identifica un termine di scadenza del contratto ma un termine di fase all'esito del quale, in assenza di disdetta, il rapporto (unico) continua con la causa tipica del lavoro subordinato.

  • Con la sentenza del 04.04.2012, n. 5365 la Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della configurabilità di una violazione dell'obbligo di fedeltà previstodall'art. 2105 c.c., che si specifica nel divieto di concorrenza a carico del prestatore di lavoro subordinato (divieto che riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso) non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un'attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, essendo invece necessario che almeno una parte dell'attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto.La Suprema Corte ha, di poi, chiarito che anche qualora risulti accertata la concorrenza sleale il danno non è in re ipsa, ma richiede di essere provato secondo i principi generali, con la conseguenza che solo a seguito di tale avvenuta dimostrazione il giudice potrà procedere con la liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all'equità.
  • La Suprema Corte, con sentenza depositata il 25 settembre 2017, ha ribadito il proprio arresto che prevede che il danno non patrimoniale che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale debba essere risarcito quando sia conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti e che la sussistenza di tale danno possa essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento. 

     

  • Con la sentenza del 27.09.2011, n. 19710 la Corte di Cassazione ha ribadito che in capo al datore di lavoro incombe l’onere di motivare le note di qualifica con cui esprime valutazioni circa il rendimento e la capacità professionale del lavoratore, atteso che le suddette note sono sindacabili dal giudice in riferimento sia ai parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo sia agli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che qualora ad una determinata valutazione del datore di lavoro inerisca l’attribuzione di uno specifico beneficio retributivo, il lavoratore ha l’onere di dedurre che la valutazione corretta avrebbe comportato l’attribuzione del beneficio, ricadendo, invece, sul datore di lavoro la prova dell’esistenza di cause ostative alla concessione dello stesso.

  • Con la sentenza 20.02.2012, n. 2414 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui affinché si possa considerare valida ed efficace la cessione, da parte dei datori di lavoro, dei crediti maturati nei confronti dello Stato (o di altre pubbliche amministrazioni o di enti pubblici economici) con i debiti previdenziali in essere nei confronti della P.A., è necessario, in primis, il rispetto dei requisiti formali (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e, di poi, che il credito ceduto sia certo, liquido ed esigibile; che il cedente notifichi l'atto di cessione all'istituto previdenziale e all'amministrazione debitrice, e che quest'ultima, entro 90 giorni dalla notifica, comunichi il riconoscimento della propria posizione debitoria.

  • Con la sentenza del 25.11.2011, n. 24899 la Corte di Cassazione ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, nell'ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi da riconoscersi al datore di lavoro affinché possa valutare convenientemente la compatibilita di una rinnovata presenza del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali. Logica conseguenza è che in tale evenienza la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito dovrà operare di volta in volta, con riferimento all'intero contesto delle circostanze potenzialmente significative, se del caso valutando detta tempestività in relazione non al momento in cui spira il termine interno del comporto, bensì a quello di rientro in servizio del lavoratore.La Suprema Corte ha precisato, di poi, che, legittimo il diritto dell'imprenditore di intimare il licenziamento non appena risulti esaurito il periodo di comporto da parte del lavoratore,è, altresì, legittimo il comportamento del datore di lavoro che ritenga conveniente attendere ulteriormente il rientro in servizio del lavoratore per sperimentare in concreto l'utilità o meno di continuare ad avvalersi della sua collaborazione con la conseguenza che, l'assenza di provvedimenti espulsivi contestuali allo spirare del termine di comporto, non costituisce tout court condotta tale da poter astrattamente ingenerare nel dipendente l'incolpevole affidamento circa l'eventuale rinuncia a risolvere il rapporto.

  • Con pronuncia del 29 settembre 2017 la Corte di Cassazione ha chiarito che, come espressamente previsto della L. n. 104 del 1992, art. 33, è il datore di lavoro, e non l'ente previdenziale, il soggetto destinatario dell'obbligo della concessione di tre giorni di permesso mensile retribuito a favore del lavoratore che assiste una persona con handicap grave o parente o affine entro il terzo grado e convivente. A tanto consegue la legittimazione passiva della parte datrice anche in ordine alla pretesa risarcitoria scaturente dalla dedotta violazione dell'obbligo di concessione dei permessi in questione.

  • Con la sentenza dell'11.02.2013, n. 3175 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui l'eventualità di repechage di un dirigente licenziato per esigenze di ristrutturazione aziendale è inconciliabile con la stessa posizione dirigenziale del lavoratore.Tale posizione secondo la Suprema Corte giustifica la libera recedibilità del datore di lavoro senza che possano essere richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente