Diritto del lavoro

  • La valutazione finale dello studente circa l'insufficienza nelle singole materie di studio in sede di scrutinio finale compete al Consiglio di Classe, il quale, in particolare, la formula con metodo collegiale. Il verbale redatto in sede di scrutinio, peraltro, ha valenza di atto pubblico per cui le attestazioni ivi contenute fanno fede sino a querela di falso. compresa quella inerente l'utilizzo del metodo collegiale per l'attribuzione del voto nelle singole materie nonché la decisione di sospendere, a carico dello studente che abbia conseguito un certo numero di valutazioni negative, il giudizio di ammissione alla classe successiva. E' quanto statuito dal T.A.R. Lombardia con la sentenza del 27 agosto 2010, n. 4418, che ha proseguito nella sua motivazione affermando che era priva di pregio la doglianza inerente la supposta mancata collegialità delle decisioni in parola formulata, com'era nel caso di specie, sulla base del fatto che alcuni degli atti recanti la descrizione del debito formativo presentassero una data anteriore a quella dello scrutinio. La suesposta circostanza (a parte quanto già espresso in relazione alla valenza pubblica dell'atto) poteva denotare, al più, che ciascuno dei docenti competenti aveva provveduto a predisporre la documentazione necessaria prima dello scrutino senza che ciò potesse assumere alcuna valenza, neanche indiziaria, in ordine alla presunta assenza di collegialità nella successiva valutazione finale operata dal Consiglio di Classe il quale, legittimamente, aveva potuto esprimere un parere del tutto sovrapponibile con quello già espresso dal singolo docente.

  • Il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 294 del 22 febbraio 2011, ha stabilito che non meriti accoglimento la domanda promossa da un dipendente al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti della lesione subita alla propria integrità fisica allorquando dalla disamina del sinistro non sia configurabile alcuna responsabilità in capo all'Amministrazione intimata (Nel caso di specie, è stata rigettata la domanda risarcitoria promossa dalla ricorrente, quale insegnante, per i postumi che la stessa aveva riportato per la lesione dell'occhio destro, causata dal lancio di una biro con un elastico, utilizzato come fionda, ad opera di un alunno della sua classe, tenuto conto che il danno era stato determinato dal comportamento di un alunno, con la conseguente insussistenza del nesso di causalità tra l'operato della Pubblica Amministrazione e l'adozione di misure cautelative).

  • Con la sentenza del 20.07.2012 n. 12726 la Corte di Cassazione ha affermato che, mentre a norma dell'art. 183 D. Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti Locali) è lecito indicare nelle deliberazioni adottate dal Consiglio comunale il nominativo di un pubblico dipendente nei cui confronti è stato disposto un pignoramento dello stipendio, atteso che la summenzionata norma prevede che per l'adozione degli impegni di spesa debba essere specificata, oltre alla somma da pagare ed al soggetto creditore, anche la ragione di tale impegno, non è, invece, conforme ai criteri di pertinenza e proporzionalità di cui all'art. 9 della suddetta legge riportare i dati personali del dipendente in questione in un avviso di convocazione del Consiglio Comunale e, specificatamente, nella voce dell'ordine del giorno concernente il riconoscimento di un debito fuori bilancio. La Suprema Corte ha, infatti, precisato che in siffatta circostanza è sufficiente il solo riferimento all'oggetto ed al numero della sentenza di esecuzione, la cui indicazione è necessaria per il riconoscimento del predetto debito, in virtù dell'art. 10, I comma, D. Lgs. n. 267 del 2000 che prevede il bilanciamento dell'esigenza di trasparenza e pubblicità degli atti dell'Amministrazione comunale con quella connessa alla loro diffusione con pericolo di pregiudizio del diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese.

  • Con la sentenza del 19.09.2011, n. 19081 la Suprema Corte ha stabilito che il diritto del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del trattamento di fine rapporto a carico dello speciale fondo di cui allaL. n. 297 del 1982 ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro. Tale diritto di credito si perfeziona non già con la cessazione del rapporto di lavoro ma unicamente al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (insolvenza del datore di lavoro, domanda di ammissione al passivo, verifica dell'esistenza e misura del credito in sede di ammissione la passivo, ovvero all'esito di procedura esecutiva), con la conseguenza che, prima che si siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta all'INPS e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del fondo di garanzia.

  • Con la sentenza n. 24231 del 13.11.2014 la Suprema Corte ha affermato che l'esecutività dello stato passivo che abbia accertato in sede fallimentare l'esistenza e l'ammontare d'un credito per TFR in favore del dipendente dell'imprenditore dichiarato fallito importa, ai sensi della L. n. 297 del 1982, art. 2, il subentro dell'INPS nel debito del datore di lavoro insolvente, senza che l'istituto previdenziale possa in alcun modo contestarne l'assoggettabilità alla procedura concorsuale e l'accertamento ivi operato, al quale resta vincolato sotto il profilo dell'an e del quantum debeatur.

  • Con sentenza n. 10937 del 18 maggio 2011 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio sulla base del quale l'incorporazione di una società in un'altra è assimilabile al trasferimento d'azienda di cuiall'art. 2112 c.c., con la conseguente applicazione del principio statuito dalla citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se più sfavorevole, Cass. 1 marzo 2010 n. 5882, Cass. 4 febbraio 2008 n. 2609.

  • Con sentenza del 24 febbraio 2011 n. 4495 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio consolidato sulla base del quale per le autostrade, contemplate dall'art. 2 del vecchio e del nuovo codice della strada e per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l'apprezzamento relativo alla effettiva "possibilità" del controllo alla stregua degli indicati parametri non può che indurre a conclusioni in via generale affermative, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all'art. 2051 c.c. Nell'applicazione del principio occorre peraltro distinguere le situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze dell'autostrada, da quelle provocate dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l'incolumità degli utenti e l'integrità del loro patrimonio.Per le situazioni del primo tipo, l'uso generalizzato e l'estensione della res costituiscono dati in via generale irrilevanti in ordine al concreto atteggiarsi della responsabilità del custode mentre per quelle del secondo tipo dovrà configurarsi il fortuito tutte le volte che l'evento dannoso presenti i caratteri della imprevedibilità e della inevitabilità come accade quando esso si sia verificato prima che l'ente proprietario o gestore, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata al fine di garantire un intervento tempestivo, potesse rimuovere o adeguatamente segnalare la straordinaria situazione di pericolo determinatasi, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere.

  • D. Lgs n. 368/01 Contratto a tempo determinato - esclusione dall'ambito di applicazione degli operai agricoli

  • La corte di Cassazione, con la sentenza n. 3042 dell' 8 febbraio 2011, ha affermato che il comportamento del lavoratore dipendente, per quanto grave, se avente carattere episodico e se congruamente motivato, non può dar luogo ad un giudizio di "particolare gravità" quale il licenziamento disciplinare.

  • La Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2011, n. 896, ha precisato che il fatto che il lavoratore subordinato abbia commesso un illecito, con conseguente danno patrimoniale, a discapito del datore di lavoro, legittima quest'ultimo a proporre un'azione di risarcimento (eventualmente in via riconvenzionale, qualora il lavoratore abbia agito per il pagamento della retribuzione) e ad ottenere poi la compensazione con i controcrediti del lavoratore, ma non gli attribuisce il diritto di ottenere dal giudice una riduzione delle retribuzioni dovute al prestatore, in sede di adeguamento exart. 36 Cost., comma 1.

  • La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 21625 del 21 ottobre 2010 ha affermato che il lavoro a domicilio realizza una forma di decentramento produttivo in cui l'oggetto della prestazione del lavoratore rientra comunque nel ciclo produttivo aziendale, del quale tale prestazione  (pur se resa in ambienti esterni all'azienda, con mezzi ed attrezzature anche propri del lavoratore stesso ed eventualmente anche con l'ausilio dei suoi familiari, purchè conviventi e a carico) diventa elemento integrativo.Perchè la subordinazione si realizzi, poi, "è sufficiente che il lavoratore esegua lavorazioni analoghe ovvero complementari a quelle eseguite all'interno dell'azienda, sotto le direttive dell'imprenditore, le quali non devono necessariamente essere specifiche e reiterate, essendo sufficiente, secondo le circostanze, che esse siano inizialmente impartite una volta per tutte, mentre i controlli possono anche limitarsi alla verifica della buona riuscita della lavorazione".

  • In tema di esercizio del potere disciplinare attribuito al datore di lavoro, ha da sempre rivestito una posizione centrale il principio, contenuto nell’art. 2106 cod. civ., di proporzionalità e adeguatezza della sanzione irrogata rispetto alla gravità del fatto addebitato al lavoratore.

    La proporzionalità e l’adeguatezza della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo (come ad es. sanzioni penali e amministrative), in quanto principio basilare, “primordiale” e onnipresente, valevole, in tutti gli ordinamenti.

    La regola della proporzionalità tra fatto e sanzione trasfusa nell’art. 2106 c.c. sono valide tanto nell’impiego privato quanto nel pubblico impiego privatizzato.

    Con riferimento al pubblico impiego occorre premettere che, a prescindere dalla contrattualistica nazionale, le parti sociali si sono sempre preoccupate di richiamare l’inderogabile principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni necessariamente da comminare in relazione alla gravità della mancanza e tale principio è stato ripetutamente ribadito e tutelato dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità e merito intervenuta in materia che hanno sempre escluso, in particolare, la possibilità che l’Amministrazione potesse comminare sanzioni espulsive in modo automatico ancorché il dipendente avesse subito condanne penali  [1].

    Il doveroso rispetto da parte dell’Amministrazione dei citati principi di gradualità e proporzionalità è, peraltro, confermata anche per l’ipotesi del dipendente che sia stato ritenuto colpevole con sentenza passata in giudicato per i delitti previsti dall’art. 3, comma I, della L. 27.03.2001, n.97 tra i quali rientra il reato di peculato, atteso che l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego da parte dell’Ente Pubblico, “può” (e non deve) essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare, occorrendo sempre una valutazione in concreto di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi sottesi alla fattispecie. [2]

    Il giudice di merito deve pertanto, nella valutazione in concreto che va ad operare, osservare quei canoni di valutazione e giudizio che dovrebbero riflettere le garanzie fondamentali della persona del lavoratore (quali l’esigenza che nessuna sanzione venga adottata in violazione del principio “audietur et altera pars” nonché dei canoni di effettiva lesività dell’interesse del datore di lavoro e di proporzionalità e adeguatezza rispetto alla mancanza addebitata) e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale in funzione delle esigenze di economicità dei giudizi e di salvaguardia dei principi di imparzialità, correttezza ed efficacia dell’azione della P.A. anche quale datore di lavoro pubblico [3].

    In sintesi, la Suprema Corte ha precisato come spetti al Giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura ed alla tipologia del rapporto medesimo”[4].

    Richiamato ancora il principio di diritto secondo cui “anche laddove fosse stata prevista nel contratto collettivo una ipotesi di giusta causa di licenziamento [per il comportamento contestato], essa [comunque] non vincola il Giudice, dovendo quest’ultimo verificare sempre, stante l’inderogabilità della disciplina del licenziamento, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. e se, in guisa al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di una entità tale da giustificare e legittimare il recesso, in considerazione anche dell’elemento intenzionale che ha supportato la condotta del dipendente[5], è chiaro pertanto e in conclusione come l’Amministrazione, anche in presenza dei reati indicati nell’art. 3, comma I, della L. n. 97/2001, possa comminare il licenziamento senza preavviso solo dopo aver esperito una compiuta disamina in concreto dei seguenti elementi:

    1. l’intenzionalità del comportamento;
    2. la rilevanza degli obblighi violati;
    3. le responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente;
    4. il grado di danno o di pericolo causato all’ente, agli utenti o a terzi ovvero al disservizio determinatosi;
    5. la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore, ai precedenti disciplinari nell’ambito del biennio previsto dalla legge, al comportamento verso gli utenti;
    6. il concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra di loro,

    elementi tutti necessari a comprendere se il venir meno del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore evocato ad unico motivo del licenziamento sia o meno effettivamente sussistesse.

     Avv. Mattia Angeleri 

     

    [1] Art. 9, comma 1, L 07/02/1990 n. 19 recita: “Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge”. Tale principio è stato alla base delle pronunce di costituzionalità, legittimità e merito, tra le quali si ricorda Corte Cost 15.12.2016, n. 268; Corte Cost. 27.04.1993, n. 197; Corte Cost. 14.10.1988, n. 971; Cass. Sez. Lavoro 9.07.2009, n. 16153; Trib. Torino, Sez. Lavoro 12.10.2009.

    [2] Corte Cost., sent. n. 971/1988; Corte Cost., sent. n. 197/1993.

    [3] Cass. Civ., Sez. Lav., 19.01.2011, n. 1141

    [4] Cass. Civ., Sez. Lav., 13.02.2012, n. 2013

    [5] Cass. Civ., Sez. Lav., 29.06.2016, n. 18858; Cass. Civ., Sez. Lav., 18.09.2012, n. 15654; Cass. Civ., Sez. Lav, 26.04.2012, n. 6498; Cass. Civ., Sez. Lav., 03.01.2011, n. 35; Cass. Civ., Sez. Lav., 19.10.2007, n. 21965; Cass. Civ., Sez. Lav., 27.09.2007, n. 20221.

  • Il Ministero del Lavoro con la Circolare 25 novembre 2010, n. 3428 interviene per fornire in via interpretativa le prime istruzioni operative utili per la fase transitoria conseguente alle modifiche introdotte dalla Legge n. 183/2010 (Collegato lavoro), confermando la facoltatività del tentativo di conciliazione.

  • La Corte di Cassazione con la sentenza del 06.06.2011 n. 12175 ha confermato il principio secondo cui il diritto del coniuge ad una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro sorge allorché il richiedente sia titolare dell'assegno divorzile, non sia passato a nuove nozze e l'indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio.

  • Con la sentenza del 23.04.2012, n. 6337 la Corte di Cassazione ha chiarito che la previsione normativa contenuta nell'art. 2087 c.c. (avente una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore) è riferita ad ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi: come è stato posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 1996 non sono, infatti, soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, ivi compresa la norma in questione, assumono in proposito una valenza decisiva.
    L'art. 2087 c.c., come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica con la conseguenza che supplisce alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto.
    La Suprema Corte ha chiarito, infine, che le norme specifiche antinfortunistiche rappresentano, dunque, lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore sicché, a tal fine, vanno - proprio per la natura di "norma di chiusura"dell'art. 2087 c.c. - adottate tutte quelle misure che la specificità del rischio cui egli sia esposto impongono. La sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41 Cost., comma 2, che espressamente impone limiti all'iniziativa privata per la sicurezza) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio (legittimo) profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda.
  • Con la sentenza del 31.07.2012 n. 13701 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, volte ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare tutte le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. La Suprema Corte ha altresì precisato che la condotta dell'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni non può essere, invero, scriminata dall'eventuale concorso di colpa del lavoratore, rilevante, in termini di esonero totale della parte datoriale, solo qualora recante i caratteri della abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, nonché come concausa dell'infortunio in ipotesi di carenza dei caratteri predetti, con proporzionale riduzione della responsabilità del datore di lavoro.

  • Con la sentenza del 02.10.2019, n. 24629, la Corte di Cassazione ha enuncleato che "in tema di infortuni sul lavoro e di cd. rischio elettivo, premesso che la "ratio" di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l'eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l'evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento dovuto" (in senso conf. v. anche Cass. sez. lav., ord. n. 16026 del 18.6.2018).

  • La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32473 del 08.11.2021, ha ribadito ancora una volta il suo precedente e consolidato orientamento sostenendo che «sia da escludere l’indennizzabilità dell'infortunio subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell'ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè, posto che la lavoratrice, allontanandosi dall'ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si è volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all'attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente; del tutto irrilevante è la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi, o, comunque, una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l'area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro».

  • La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24474 del 04 novembre 2020, ha enucleato l’importante principio secondo cui «in tema di danno biologico, l'erogazione effettuata dall'INAIL ai sensi delle disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è strutturata in termini di mero indennizzo che, a differenza del risarcimento civile, è svincolato dalla sussistenza di un illecito contrattuale od aquiliano in capo al datore di lavoro e, di conseguenza, può essere disposto anche a prescindere dall'elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità. Per contro nella responsabilità civile del datore di lavoro, essendo il danno risarcibile sempre conseguenza di un fatto illecito, non si può prescindere da un accertamento del fatto illecito e dalla responsabilità del soggetto obbligato, non avendo come finalità ultima una funzione assistenziale ma quella di rimuovere le conseguenze prodotte nella sfera giuridica del danneggiato dall'illecito».

     

  • Con sentenza del 3 novembre 2017 n. 26163 la Corte di Cassazione, ripreso il dettato delle Sezioni Unite che con la sentenza n. 19992 del 2009 avevano chiarito che la decadenza annuale dall'azione prevista dal disposto dell'art. 47 del D.P.R. n. 639/1970, si applica anche alle prestazioni erogate dal Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, ha ribadito che tale decadenza debba intendersi per verificata nel caso in cui sia decorso il termine di un anno e trecento giorni corrispondente alla durata massima complessiva del procedimento amministrativo risultante dalla somma del termine presuntivo di centoventi giorni previsto per la decisione della domanda dalla L. 11 agosto 1973, n. 533, art. 7 e di centottanta giorni, previsto per la decisione del ricorso amministrativo dalla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 46, commi 5 e 6 - dalla presentazione delle domande amministrative all'Inps.

    Ha, altresì, affermato che neanche l'eventuale decisione tardiva dell'istituto sulla domanda amministrativa e la decisione del ricorso tardivamente proposto possono costituire circostanze idonee a far slittare la decorrenza della decadenza rispetto alle scadenze legislativamente previste, trattandosi di termini dettati da disposizioni di ordine pubblico, indisponibili dalle parti e sulle quali l'attività delle stesse non può incidere (v., Cass., Sez.U, nn. 12718 e 19992 del 2009).