Diritto del lavoro

  • Con sentenza n. 24361 del 1 dicembre 2010 la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, ha dato per pacifico il principio sulla base del quale il requisito di immediatezza della contestazione disciplinare deve esser inteso "in modo ampio e non restrittivo essendo questo principio compatibile con l'intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore". Nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell'immediatezza comporta che l'imprenditore debba contestare i fatti non appena essi appaiono ragionevolmente sussistenti e tale immediatezza ha la funzione di assicurare l'effettività del diritto di difesa del lavoratore incolpato.

  • Con la sentenza del 11.10.2012 n. 17328 la Corte di Cassazione ha ribadito, a conferma del proprio consolidato orientamento, che in presenza di più contratti a termine illegittimi la successiva stipulazione di un contratto legittimo non estingue il rapporto di lavoro a tempo indeterminato venutosi a creare a seguito dell'illegittimità dei precedenti contratti a termine se non sussistono elementi che permettono di ritenere che le parti, con consapevolezza della conversione del precedente rapporto, abbiano inteso costituire un nuovo rapporto di lavoro. La Suprema Corte ha, infatti, precisato che, poiché la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni caratterizzato dalla volontà di fare sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche, di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti ed alla causa, l'"animus novandi", consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l'originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l'"aliquid novi", inteso come mutamento sostanziale dell'oggetto della prestazione o del titolo del rapporto.

  • Con la sentenza del 27.03.2012, n. 4909 la Corte di Cassazione ha precisato che ove il contratto collettivo preveda una ipotesi particolare di assunzione a termine per sostituire dipendenti in ferie, tale previsione è da ritenersi valida costituendo l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i suddetti lavoratori e per una efficace salvaguardia dei loro diritti con la conseguenza che non potrà essere considerata nulla la reiterazione di contratti a termine durante il periodo di ferie.

  • Con la sentenza 24100 del 26.09.2019 la Corte di Cassazione ha enucleato che «il regime indennitario istituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, in quanto fattispecie nella quale ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione».

  • Con la sentenza  n. 22932 del 13.09.2019 la Corte di Cassazione ha enucleato che «In tema di contratto di lavoro a termine, la disciplina straniera, sebbene richiamata dalle parti quale "lex contractus", non può trovare applicazione se meno favorevole per il lavoratore rispetto alla legge italiana applicabile quale "lex fori", determinandosi, in caso contrario, la violazione del limite dell'ordine pubblico internazionale nella cui nozione, anche in considerazione della normativa dell'Unione Europea, rientrano la centralità dell'impiego stabile e la limitazione all'utilizzo del lavoro precario».

  • Con la sentenza del 07.09.2012, n. 14996 la Corte di Cassazione, analizzando la previsione normativa contenuta nell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della Legge 4 novembre 2010, n. 183 ha confermato che le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge in questione.Come chiarito dalla Suprema Corte la disciplina de qua è fondata sulla ratio legis diretta ad "introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle "obiettive incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente".

    La norma non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in base ad una "interpretazione costituzionalmente orientata”.Secondo la Suprema Corte le previsioni normative in discussione devono essere intese nel senso che "il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che a partire da tale sentenza "è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva".
    Come chiarito anche dalla Corte Costituzionale intervenuta a valutare la legittimità costituzionale della norma in questione, il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum, con la conseguenza che l'indennità onnicomprensiva assumerà una valenza sanzionatoria essendo dovuta in ogni caso (anche nel caso in cui, per esempio, il lavoratore abbia prontamente reperito un'altra occupazione).

    Il giudice potrà, tuttavia, calibrare l’entità del risarcimento sulla base dei criteri indicati dall’art. 8 della Legge n. 604 del 1966 tenendo conto delle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell'anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l'indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell'impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti).Il vantaggio per il datore di lavoro, a giudizio della Suprema Corte, deve essere ravvisato nel fatto che il medesimo ha la certezza dell’entità del danno che sarà tenuto a corrispondere per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto e quello dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore.

  • Con la sentenza del 25.05.2012, n. 8286 la Corte di Cassazione ha affermato che il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, recante l'attuazione della direttiva 1999/70 CE, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEP e dal CES, costituisce la nuova fonte regolatrice del contratto di lavoro a tempo determinato, in sostituzione della L. 18 aprile 1962, n. 230 e della successiva legislazione integrativa.Il legislatore nazionale, nell'adempiere al suo obbligo comunitario, ha emanato il D.Lgs. n. 368, il quale nel testo originario, vigente all'epoca del contratto ora in questione, all'art. 1 prevede che "è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" (comma 1) e che "l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1" (comma 2).

    Contestualmente al recepimento dell'accordo-quadro il D.Lgs. n. 368 ha disposto dalla data della propria entrata in vigore (24.10.01) l'abrogazione della L. 18 aprile 1962, n. 230, della L. 25 marzo 1983, n. 79, art. 8 bis, della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, e di tutte le disposizioni di legge incompatibili (art. 11, comma 1). Il quadro normativo che emerge è, dunque, caratterizzato dall'abbandono del sistema rigido previsto dalla L. n. 230 del 1962 - che prevedeva la tipizzazione delle fattispecie legittimanti, peraltro già ripensato dalla successiva normazione delle L. n. 79 del 1983, e della L. n. 56 del 1987, art. 23 - e dall'introduzione di un sistema articolato per clausole generali, in cui l'apposizione del termine è consentita a fronte "di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".

    Tale sistema, al fine di non cadere nella genericità, impone al suo interno un fondamentale criterio di razionalizzazione costituito dal già rilevato obbligo per il datore di lavoro di adottare l'atto scritto e di "specificare" in esso le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo adottateL'onere di "specificazione" nell'atto scritto costituisce una perimetrazione della facoltà riconosciuta all'imprenditore di far ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato per soddisfare una vasta gamma di esigenze aziendali (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o aziendale), a prescindere da fattispecie predeterminate. Tale onere ha lo scopo di evitare l'uso indiscriminato dell'istituto per fini solo nominalmente riconducibili alle esigenze riconosciute dalla legge, imponendo la riconoscibilità della motivazione addotta già nel momento della stipula del contratto. D'altro canto il venir meno del sistema delle fattispecie legittimanti impone che il concetto di specificità sia collegato a situazioni aziendali non più standardizzate ma obiettive, con riferimento alle realtà in cui il contratto viene ad essere calato.Secondo la Suprema Corte non è, pertanto, sufficiente a qualificare le ragioni per le quali viene disposta l'assunzione a termine la mera indicazione di esigenze produttive ed organizzative, essendo necessario che di tali esigenze si "specifichi" congruamente la natura o che almeno la specificazione delle ragioni giustificatrici risulti per relationem ove le parti abbiano richiamato nel contratto di lavoro testi scritti che prendono in esame l'organizzazione aziendale e ne analizzano le complesse tematiche operative.

  • Con la sentenza del 21.11.2011, n. 24479 la Corte di Cassazione ha confermato il principio secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria da utilizzare solo allorché sussistano "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".La Suprema Corte ha confermato, altresì, che incombe sul datore di lavoro l'onere di indicare in modo preciso e puntuale le circostanze che contraddistinguono una particolare attività in modo da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative dell’azienda, precisando che qualora tale indicazione difetti o comunque non sussistano ragioni giustificative del termine, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell'interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE, l'apposizione del termine risulterà illegittima ed il rapporto di lavoro a tempo determinato verrà convertito in contratto a tempo indeterminato.

  • Con la sentenza del 18.01.2012, n. 685 la Corte di Cassazione ha ribadito che i limiti previsti dall'art. 545 c.p.c. relativi alla cessione, al sequestro ed al pignoramento delle somme dovute in dipendenza del rapporto di lavoro, ivi compreso il rapporto di agenzia, si applicano indistintamente al settore pubblico e privato ed il pignoramento degli emolumenti è consentito solo nella misura del quinto.

  • Con sentenza del 5 novembre 2010 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio sulla base del quale in tema di prestazioni lavorative rese dal lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno, l'illegittimità del contratto per la violazione di norme imperative (art. 22 T.U. immigrazione) poste a tutela del prestatore di lavoro (art. 2126 cod. civ.), sempre che la prestazione lavorativa sia lecita, non esclude l'obbligazione retributiva e contributiva a carico del datore di lavoro in coerenza con la razionalità complessiva del sistema che vedrebbe altrimenti alterate le regole del mercato e della concorrenza ove si consentisse a chi viola la legge sull'immigrazione di fruire di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle cui è soggetto il datore di lavoro che rispetti la disciplina in tema di immigrazione (conforme Cass. 26-3-2010 n. 7380).

  • Con sentenza del 20 gennaio 2011 la Corte di cassazione ha affermato che, dovendosi intendere per "denunce" le comunicazioni obbligatorie che il soggetto è tenuto a effettuare nei confronti dell'Inps, e "per registrazioni" le annotazioni che il medesimo deve fare sui libri di cui è obbligatoria la tenuta, si ritiene che vi è omissione (art. 116, comma 8, lett. a) della Legge n. 388/2000) e non evasione (lett. b) dello stesso comma), qualora il credito dell'Istituto sia rilevabile e quindi risulti o dalle denunce o dalle scritture, considerando che la legge usa (anche) la disgiuntiva "o". In tale caso, dovendo logicamente escludersi l'occultamento del rapporto di lavoro e delle retribuzioni erogate, ricorre l'ipotesi meno grave perchè il credito dell'Inps, seppure non segnalato in piena conformità alle complesse regole prescritte, è comunque evincibile attraverso documentazione di provenienza del soggetto obbligato.

  • Con sentenza del 21 ottobre 2010, n. 21261, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha enunciato il principio sulla base del quale, per giustificare il mancato rispetto dell'obbligo di reperibilità in orari determinati, non è richiesta l'assolutà indifferibilità della prestazione sanitaria da effettuare ma è sufficiente un serio e fondato motivo che giustifichi l'allontanamento dal proprio domicilio.

  • Il danno patrimoniale da perdita di "chance" è un danno futuro, consistente non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione "ex ante" da ricondusi diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale. E' quanto ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20808 del 7 ottobre 2010 asserendo oltrepiù che l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, questa ultima necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede ai legittimità' se adeguatamente motivati.

  • Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, confermando l'orientamento già espresso con la sentenza n. 6572/2006, con la sentenza n. 4063 del 22 febbraio 2010 hanno ribadito che, accertato il demansionamento del lavoratore, il conseguente danno può essere desunto in base ad una valutazione presuntiva riferita alle concrete circostanze della operata dequalificazione (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale), così risalendo al fatto ignoto attraverso un prudente apprezzamento fondato su nozioni generiche derivanti dall'esperienza. Attraverso tale ragionamento il Giudice potrà ritenere di condannare il datore di lavoro in tutte quelle ipotesi in cui la sua condotta illecita abbia violato in modo grave i diritti oggetto di tutela costituzionale, da individuarsi caso per caso.

  • Con sentenza del 02.10.2019, n. 24631, La Corte di Cassazione ha ribadito un Suo precedente orientamento, enucleando che: «sul tema del diritto alla indennità supplementare riconosciuta dalla contrattazione collettiva ai dirigenti licenziati a causa di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi settoriale o aziendale, nonchè di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, questa Corte ha già avuto occasione di disattendere letture orientate a ravvisare "una cesura di carattere non solo temporale, ma logica" fra la fase propriamente di risanamento e quella eventualmente conseguente all'esaurimento dell'esperimento conservativo, tale da escludere la suddetta indennità in caso di licenziamento intervenuto a significativa distanza dall'apertura della procedura e "non conseguente della ristrutturazione dell'azienda bensì all'accertata impossibilità di proseguire nell'attività produttiva" (in tal senso Cass., Sez. 1, n. 29735 del 2018, che richiama Cass. Sez. lav. n. 14769 del 2005, Cass. n. 3572 del 2004 e n. 5371 del 1998)».

  • L’agricoltura è un settore produttivo caratterizzato dalla stagionalità ossia dall’esigenza delle aziende agricole di far fronte a lavorazioni che richiedono l’impiego di personale solo per determinati periodi di tempo durante l’anno.

    Questa peculiarità ha fatto sì che il contratto di lavoro a tempo determinato sia stato utilizzato come la forma più comune di rapporto di lavoro e come tale sia stato oggetto di una disciplina distinta da quella prevista per i rapporti di lavoro subordinato negli altri settori produttivi.

    Anche la giurisprudenza ha sempre considerato come tipico del settore agricolo il contratto di lavoro a tempo determinato affermando, in numerose pronunce, la regola secondo cui la predeterminazione del termine di scadenza del rapporto ben poteva essere derogata qualora fosse stata manifestata dalle parti una espressa volontà di assunzione senza alcuna determinazione di tempo.

    L’esclusione degli operatori del settore agricolo dalla generale disciplina dei contratti a tempo determinato, già prevista dalla Legge n. 230/1962 e dal successivo Decreto Legislativo n. 368/2001, è stata mantenuta anche a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 81/2015: ai sensi dell’art. 29, comma 1 lett. b), le norme generali sui contratti a tempo determinato non si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato degli operai agricoli così come definiti dall’art. 12, comma 2 del Decreto Legislativo n. 375/1993, ossia lavoratori a termine diversi dai salariati fissi a contratto annuo e categorie simili, equiparati invece agli operai a tempo indeterminato.

    Detta esclusione comporta, per esempio:

    1. la mancanza dell’obbligo di indicare per iscritto le ragioni dell’apposizione di un termine al contratto. Com’è noto, infatti, in caso di mancata osservanza di tale obbligo il contratto di lavoro sarebbe considerato a tempo indeterminato ma non per gli operai agricoli;
    2. l’assenza di limitazioni alla proroga del contratto a termine e degli intervalli in caso di successione di contratti. Se l’operaio agricolo a tempo determinato viene riassunto con contratto a termine immediatamente dopo la scadenza del primo contratto o viene riassunto con contratto a termine entro 10 o 20 giorni dalla scadenza, il rapporto non viene considerato a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione del primo contratto.

    Le deroghe sopra indicate, che esemplificano le specifiche differenze di trattamento contrattuale dettate per gli operai agricoli rispetto a quelli di altri settori, non trovano, tuttavia, applicazione nei rapporti instaurati con le altre categorie di dipendenti del settore agricolo (impiegati, quadri, dirigenti).

    Dal regime di esclusioni ne discende che la disciplina dei rapporti lavorativi con gli operai agricoli sia sostanzialmente quella contenuta nei contratti collettivi di settore, primo fra tutti il CCNL per gli Operai Agricoli e Florovivaisti attualmente in vigore (01.01.2014 – 31.12.2017), come integrato dalla Contrattazione Collettiva Provinciale (rinnovato di recente dalle Associazioni piemontesi con valenza per il quadriennio 2016-2019).

    In base a detta normativa nazionale, l’assunzione con contratto a termine può avvenire (artt. 21 e 22):

    1. a) per la esecuzione di lavori di breve durata, stagionali o a carattere saltuario o assunti per fase lavorativa o per la sostituzione di operai assenti per i quali sussista il diritto alla conservazione del posto;
    2. b) per l’esecuzione di più lavori stagionali e/o per più fasi lavorative nell’anno, ai quali l’azienda è comunque tenuta a garantire un numero di giornate di occupazione superiore a 100 annue. In tal caso nel contratto individuale devono essere indicati i periodi presumibili di impiego, per i quali l’operaio garantisce la sua disponibilità pena la perdita del posto di lavoro nelle fasi successive e della garanzia occupazionale, salvo comprovati casi di impedimento oggettivo;
    3. c) di durata superiore a 180 giornate di effettivo lavoro, da svolgersi nell’ambito di un unico rapporto continuativo.

    Per “fase lavorativa” si intende il periodo di tempo limitato alla esecuzione delle singole operazioni nelle quali si articola il ciclo produttivo annuale delle principali colture agrarie della provincia.

    Per la il territorio di Torino ed aree limitrofe le principali colture agrarie sono, per esempio, l’aratura, la semina, la potatura, ecc.. così come definite dal Contratto Collettivo Provinciale di Lavoro.

    Al di fuori di dette casistiche e, soprattutto, al di fuori di un unico rapporto continuativo, ai sensi dell’art. 23 del CCNL l’operaio che presso la stessa azienda, nell’arco di 12 mesi dalla data di assunzione, abbia effettuato 180 giornate di lavoro effettivo, ha diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

    A tale diritto accede altresì il lavoratore che abbia effettuato delle giornate lavorative in assenza di valida e precedente stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato.

    Il diritto alla trasformazione del rapporto deve essere esercitato, a pena di decadenza, entro 6 mesi dal perfezionamento del requisito delle 180 giornate di lavoro effettivo, mediante comunicazione scritta da presentare al datore di lavoro. Quest’ultimo, una volta ricevuta nei termini la comunicazione scritta da parte del lavoratore, deve comunicare agli organi competenti la instaurazione del nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

    Il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro, tuttavia, non spetta:

    1) agli operai a tempo determinato assunti originariamente con contratto di lavoro a termine con garanzia minima di 100 giornate, di cui alla lettera b);

    2) agli operai a tempo determinato assunti originariamente con contratto di lavoro a termine e di durata superiore a 180 giornate di effettivo lavoro, da svolgersi nell’ambito di un unico rapporto continuativo, di cui alla lettera c) degli articoli 21 e 22;

    3) agli operai a tempo determinato assunti per la sostituzione di operai assenti per i quali sussista il diritto alla conservazione del posto.

    L’esposizione sopra proposta delle principali particolarità della disciplina dei contratti a tempo determinato in agricoltura induce a consigliare agli operatori del settore di farsi assistere da specialisti della materia giuslavoristica ovvero dalle Organizzazioni Sindacali di categoria al fine di prevenire contenziosi giudiziari nel rispetto dei diritti tanto dei datori di lavoro quanto dei lavoratori che prestano la manodopera.

                                                                                                                                 

    Avv. Marcello Maria BOSSI

    Avv. Francesca PELLE

  • L'affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore può venire meno e giustificare il licenziamento anche nel caso in cui si tratti di un illecito commesso durante un precedente rapporto di lavoro, intercorso con altro datore.

    In tema di trasferimento d'azienda, deriva dall'art. 2112 c.c., che i mutamenti nella titolarità non interferiscono con i rapporti di lavoro già intercorsi con il cedente, che continuano a tutti gli effetti con il cessionario, con la conseguenza che questi subentra in tutte le posizioni attive e passive facenti capo al cedente, essendo del tutto incongruo (in contrasto con i canoni ermeneutici applicabili per la normativa de qua) presumere, in assenza di una specifica deroga legislativa, che il cessionario assuma solo le obbligazioni e non anche i diritti ed i poteri del cedente nella gestione di un identico rapporto di lavoro “che continua”. Ne consegue che il cessionario può esercitare i poteri disciplinari inerenti al rapporto di lavoro per fatti precedenti la cessione dell’azienda.

    Questo è anche conforme alla direttiva comunitaria n. 77/187 (introdotta nel nostro ordinamento con la L. 29 dicembre 1990, n. 428) ha sancito che «i diritti e gli obblighi, che risultano per il cedente di un contratto di lavoro o di un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario» (art. 3, comma 1, della direttiva cit. e successivi artt. 3, comma 1, delle direttive nn. 98/50 e 2001/23).

    In caso di trasferimento di ramo d’azienda, affinché l'affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore possa venire meno e possa così giustificare il licenziamento, non è necessario che il comportamento lesivo sia stato tenuto durante lo svolgimento del rapporto ma può essere sufficiente un fatto che, non ancora conosciuto o non sufficientemente accertato quando il rapporto iniziò, sia divenuto palese successivamente, durante lo svolgimento del rapporto; pertanto, il fatto che il comportamento illecito sia avvenuto prima del trasferimento non esclude la legittimità del licenziamento operato dal cessionario, vieppiù laddove, come nella specie, l'illecito abbia natura penale[1].  

     Il licenziamento disciplinare sarebbe tuttavia illegittimo nel caso in cui illegittimo fosse anche la cessione del ramo d’azienda. Il trasferimento del rapporto di lavoro si determina infatti solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente[2].

    Dott. Mattia Angeleri 

     

    [1] Cassazione civile sez. lav., 09/10/2015, n. 20319; Cass. 27 settembre 2007 n. 20221; Cass. n. 7338/1986.

    [2] Cass. 12442/2020; cfr. da ultimo: Cass. 28L febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l'interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario.

  • Il Tribunale di Milano con sentenza depositata in data 10.01.2011 ha statuito che il diritto del disabile all'istruzione si configura come un "diritto fondamentale" la cui fruizione deve essere assicurata tramite "misure di integrazione e sostegno idonee a garantire ai portatori di handicaps la frequenza degli istituti di integrazione". Pertanto secondo il Giudice monocratico si concreta una illegittima discriminazione da parte dell'Ente Pubblico allorché la decisione del Ministero dell'Istruzione di ridurre, ancorché per ragioni di bilancio, le ore di sostegno sino ad allora garantite agli studenti disabili non trovi una corrispondente contrazione della didattica e della fruizione del diritto allo studio per gli studenti non svantaggiati.

  • Con un interessante pronuncia del 19 maggio 2010 (Sentenza n. 1508) il T.A.R. Toscana ha affermato che è illegittimo costituzionalmente l'art. 2, comma 413, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 nella parte in cui fissa un limite massimo al numero dei posti degli insegnanti di sostegno; al contempo è illegittimo costituzionalmente l'art. 2, comma 414, della medesima legge n. 244/2007, nella parte in cui esclude la possibilità di assumere insegnanti di sostegno con contratto a tempo determinato, in deroga al rapporto docenti ed alunni normativamente previsto, in presenza di disabilità particolarmente gravi.

  • Depositati i dispositivi delle sentenze n.ri 3315 e 3316 del Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, con i quali è stato confermato il diritto dei docenti precari a percepire gli scatti biennali di anzianità.