Diritto del lavoro

  • La Corte di Cassazione con sentenza n. 12174 dell’8 Maggio 2019 ha enucleato che «ai fini della pronuncia di cui all'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23 del 2015, la insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilevo disciplinare».

  • Con la sentenza del 17.09.2012, n. 15519 la Corte di cassazione ha confermato l’intendimento giurisprudenziale in forza del quale il danno da risarcire, ai sensi dell’art. 18 della Legge n. 300 del 1970, in caso di licenziamento illegittimo e di esercizio del diritto di opzione va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell'indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta.Secondo la Suprema Corte la ratio di tale interpretazione deve essere ravvisata nel fatto che il sistema dell'art. 18 della Legge n. 300 del 1970 si fonda sul principio di effettiva realizzazione dell'interesse del lavoratore a non subire, o a subire al minimo, i pregiudizi conseguenti al licenziamento. In questa prospettiva ermeneutica il regime dell'opzione e la determinazione del danno risarcibile vengono persuasivamente collegati e saldati con il complessivo regime normativo di cui all'art. 18 della Legge n. 300 del 1970 ed ai valori sottesi alla disciplina garantistica statutaria, diretti a tutelare con strumenti processuali efficaci e tempestivi il diritto del lavoratore ad una idonea tutela (anche dal punto di vista risarcitorio e sotto il profilo della deterrenza) contro il licenziamento ingiustificato che oggi trova riscontro anche sul piano dei valori e dei principi dello stesso ordinamento sovranazionale all'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

  • La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza del 21 ottobre 2010, n. 21621, ha affermato il principio sulla base del quale non è licenziabile il lavoratore risultato assente durante la visita di controllo nell'ipotesi in cui la malattia dello stesso sia riconducibile ad uno stato di depressione.

  • La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24361 del 1 dicembre 2010, ha affermato che l'atteggiamento negligente del lavoratore, protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei superiori, il quale violi in modo incontestato la clausola di rendimento relativa all'attività lavorativa espletata, rende legittimo il licenziamento per scarso rendimento, nonostante la qualità di rendimento e capacità professionale dimostrate in precedenza

  • La Corte di Cassazione con la sentenza del 3 gennaio 2011, n. 35, ha ribadito il proprio consolidato orientamento confermando che il datore di lavoro, che ha licenziato un proprio dipendente per giusta causa, ha l'onere di provare che il lavoratore ha posto in essere un comportamento integrante una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto lavorativo, tenendo conto non del fatto in astratto, bensì degli aspetti concreti dello stesso, relativi alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nell'organizzazione dell'impresa nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ovverosia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale.

  • La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza del 25 novembre 2010 n. 23932, ha ribadito che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (in tal senso: Cass. sez. lav., 10.4.2008 n. 9425; Cass. sez. lav., 8.9.2006 n. 19270, e, con riferimento alla circostanza che ai fini della valutazione della gravità dell'addebito, da parte del giudice di merito, debba tenersi conto anche dell'elemento soggettivo: Cass. sez. lav., 19.8.2004 n. 16260; Cass. 15.5.2004 n. 2999).

  • La Corte di Cassazione con la sentenza n. 3596 del 14 febbraio 2011 ha ribadito che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. La valutazione della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (in tal senso: Cass. n. 9425 del 2008; n. 19270 del 2006), e, con riferimento alla circostanza che ai fini della valutazione della gravità dell'addebito, da parte del giudice di merito, debba tenersi conto anche dell'elemento soggettivo (Cass., n. 16260 del 2004) ( nel caso di specie il lavoratore aveva contestato la mancata forma scritta della concessione di un periodo di ferie, rifiutandosi di allontanarsi dal posto di lavoro).

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    Con la sentenza del 06.07.2012, n. 11402 la Corte di Cassazione ha affermato, in materia di licenziamento, i seguenti principi:
    1. il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Costituzione, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore;
    2. ai fini della configurabilità della ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante (nella impossibilità di una diversa collocazione del dipendente) il giustificato motivo oggettivo di recesso, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta e definitiva eliminazione nell'ottica dei profili tecnici e degli scopi propri dell'azienda di appartenenza, atteso che le stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già esistente, secondo insindacabili e valide, o necessitate, scelte datoriali relative ad una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale, senza che detta operazione comporti il venir meno della effettività di tale soppressione;
    3. l'onere, incombente sul datore di lavoro, di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, concernendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti, quali la circostanza che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori ovvero che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati;d) l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, pur gravando interamente sul datore di lavoro e non potendo essere posto a carico del lavoratore, implica comunque per quest'ultimo un onere di deduzione e allegazione della possibilità di essere adibito ad altre mansioni, sicché ove il lavoratore ometta di prospettare nel ricorso tale possibilità, non insorge per il datore di lavoro l'onere di offrire la prova sopraindicata.
    La Suprema Corte ha affermato, altresì, che al fine di poter ritenere possibile un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, se del caso ridotta con l'adozione dei part-time, è necessario che le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell'ambito del complesso dell'attività lavorativa svolta, una loro oggettiva autonomia, non risultino cioè intimamente connesse con quelle (prevalenti) soppresse, in modo che possa ritenersi che il residuo impiego, anche part-time, nelle mansioni non soppresse, non finisca per configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, con indebita alterazione dell'organizzazione produttiva; in altri termini l'attività - pur minoritaria - non oggetto di soppressione dovrebbe qualificarsi in termini di effettiva autonomia, si da poter ritenere che la posizione lavorativa fosse connotata in termini di affiancamento di diverse mansioni, ciascuna delle quali indipendente e distinta - anche in termini logistici e temporali - dallo svolgimento dell'altra e non già intimamente connesse fra loro, come dovrebbe invece ritenersi laddove le mansioni non soppresse fossero svolte in via sostanzialmente ausiliaria o complementare di quelle oggetto di soppressione.
  • Con sentenza del 28 marzo 2011 n. 7046 la Corte di Cassazione ha ribadito che spetta al giudice il controllo dell'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro con onere probatorio gravante sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, fermo restando l'onere per il lavoratore di deduzione e allegazione di tale possibilità di reimpiego (v., da ultimo e per tutte, Cass. 18.03.10 n. 6559).La stessa giurisprudenza ha rilevato che, quando il g.m.o. si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria nè il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili). Non è, tuttavia, vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, exartt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).In questa situazione, pertanto, la giurisprudenza si è posta il problema di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona tede (Cass. 6.9.03 n. 13058) ed ha ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criterì che laL. n. 223 del 1991, art.5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi e, conseguentemente, prendere in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità (non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico - produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti) (v. la già citata sentenza 16144 n. 2001, nonchè le successive 11.6.04 n. 11124).

  • Con la sentenza del 02.01.2013, n. 6 la Corte di Cassazione, richiamato l'art. 5 della L. n. 604 del 1966 che pone a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, ha ribadito come sia ormai consolidato il principio secondo cui in capo al datore di lavoro incomba, altresì, l'onere di provare l'impossibilità di adibire lo stesso lavoratore da licenziare ad altre mansioni equivalenti a quelle svolte all'interno dell'azienda nell'ambito dell'organizzazione aziendale.Secondo la Suprema Corte, infatti, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost..Al giudice spetta il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, e l'onere probatorio grava per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego.La Corte di Cassazione ha, infine, chiarito che il principio secondo cui “l'impossibilità di adibire il lavoratore a diverse mansiondeve essere valutato con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento escludendosi la rilevanza di fatti sopravvenuti” è rispettato anche qualora il giudice esamini fatti (in particolare assunzioni) riferiti a pochi mesi successivi al licenziamento.

  • A conferma del consolidato principio che prevede la sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento per l'ipotesi in cui cessi l'attività di impresa del datore di lavoro, la Corte di Cassazione , Sezione Lavoro, con la sentenza del 24 settembre 2010, n. 20232, ha chiarito che tale giustificato motivo sussiste anche per il caso in cui l'imprenditore mantenga la disponibilità dei beni aziendali non più operando, non costituendo causa di esclusione neppure il fatto che taluni dipendenti vengano mantenuti in servizio per il compimento dell'attività utile a cessare l'impresa.

  • Con la sentenza n. 25162 del 26.11.2014 la Suprema Corte ha ribadito che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, il giudice è tenuto a valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale nonché la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Come rilevato dai giudici di legittimità, in tale contesto può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio non necessariamente di ordine economico al datore di lavoro.

  • Con la sentenza del 27.04.2012, n. 6560 la Corte di Cassazione ha precisato che ove il licenziamento venga intimato in relazione allo svolgimento da parte del dipendente di attività incompatibile con lo status di pubblico dipendente e che di tale comportamento sia stata fatta menzione nella lettera di contestazione, il licenziamento medesimo è da ritenere legittimo anche se nella lettera di recesso non venga espressamente richiamato il comportamento che lo ha determinato.

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    Con la sentenza n. 24525 del 18.11.2014 la Corte di Cassazione ha confermato che in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ma anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione di norma imperativa e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza. Il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi dell’art. 2110 c.c., una situazione autonomamente giustificatrice del recesso che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso, per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest'atto, ove di esso costituisca il solo motivo. Dalla nullità del licenziamento discende la possibilità di rinnovazione dell'atto: quest’ultima, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 c.c. (che è norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effettoex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale). Secondo i giudici di legittimità la continuità e la permanenza del rapporto, non interrotto dall'atto di recesso nullo, per un verso rendono privo di effetto l'atto di revoca del primo licenziamento intimato dal datore di lavoro e, per altro verso, giustificano l'irrogazione di un secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo siccome basato su una nuova e diversa ragione giustificatrice, dalla quale solamente, in mancanza di tempestiva impugnazione, deriverà l'effetto estintivo del rapporto.

     

  • Con la sentenza n. 10647 del 02.05.2017 la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, il giudice non deve limitarsi a ricondurre quanto addebitato alle singole fattispecie previste dalla contrattazione collettiva ma deve valutare i fatti nel loro insieme e sulla base della nozione legale di giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c. onde verificare se i fatti stessi siano tali da minare la fiducia del datore di lavoro.

  • Con la sentenza del 26.04.2012, n. 6498 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, il giudice deve valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.La Suprema Corte ha chiarito, di poi, che anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cuiall'art. 2119 c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, precisando ulteriormente che la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il magistrato, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cuiall'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.Con la sentenza in discussione è stato ribadito, infine, che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cuiall'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero in un inadempimento tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

  • Con la sentenza n. 11027 del 05.05.2017 la Suprema Corte, dopo aver richiamato il noto principio secondo cui la giusta causa o il giustificato motivo sono considerate nozioni legali, conferma che le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito: quest’ultimo, infatti, ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell'art. 2106 c.c. e, di poi, rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative. Il giudice non può, di contro, estendere il catalogo delle condotte che rappresentano una giusta causa o un giustifico motivo soggettivo di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti, con la conseguenza che non potranno rientrare nel novero della giusta causa o giustificato motivo soggettivo le condotte (pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrarle) che siano state espressamente escluse dall'autonomia collettiva e sanzionate con misure conservative

  • Con la sentenza n. 3968 del 18 febbraio 2011 la Corte di cassazione ha affermato il principio sulla base del quale quando il datore di lavoro procede a licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in particolare per soppressione del reparto cui sono addetti i lavoratori licenziati, la verifica della possibilità di repechage va fatta con riferimento a mansioni equivalenti; ove i lavoratori abbiano accettato mansioni inferiori onde evitare il licenziamento, la prova dell'impossibilità di repechage va fornita anche con riferimento a tali mansioni ma occorre, in quest'ultimo caso, che il patto di demansionamento sia anteriore o coevo al licenziamento, mentre esso non può scaturire da una dichiarazione del lavoratore espressa in epoca successiva al licenziamento e non accettata dal datore di lavoro, specie se il lavoratore abbia in precedenza agito in giudizio deducendo l'illegittimità del demansionamento.Il Collegio di legittimità afferma, in altre parole, che il lavoratore, una volta che abbia scelto di contestare dinanzi al giudice un presunto demansionamento, non può tardivamente acconsentire all'espletamento delle mansioni inferiori, seppure per evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

  • Con la sentenza n. 26744 del 18.12.2014 la Corte di Cassazione ha confermato che la previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c..

  • Con la sentenza n. 26741 del 18.12.2014 la Suprema Corte ha confermato l'intendimento giurisprudenziale secondo cui la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in successive mancanze disciplinari, come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva, ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva, quale naturale conseguenza delle norme di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 2119 c.c., in base ai quali è sancito il principio che la sanzione irrogata deve essere sempre proporzionata al comportamento posto in essere.