Diritto del lavoro

  • Con sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017 la Corte di Cassazione ha affermato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.

    Inoltre, l'espletamento di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente, con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il comportamento viene realizzato

  • Con la sentenza del 20.02.2012, n. 2419 la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui l'onere probatorio del datore di lavoro che invochi l'esclusione dall'imponibile contributivo delle erogazioni in favore dei lavoratori effettuate a titolo di rimborso spese per l’utilizzo di un veicolo è assolto documentando i rimborsi chilometrici avuto riguardo al mese di riferimento, ai chilometri percorsi nel mese, al tipo di automezzo usato dal dipendente, all'importo corrisposto al rimborso del costo chilometrico sulla base della tariffa ACI senza che occorra, al riguardo, documentazione specifica recante l'analitica indicazione dei viaggi giornalmente compiuti dal dipendente, delle località di partenza e di destinazione, la specificazione dei clienti visitati o il riepilogo giornaliero dei chilometri percorsi.

  • Con la sentenza del 07.09.2011, n. 18309 la Corte di Cassazione ha ribadito che il beneficio contributivo previsto dall’art. 8, IV comma, L. n. 223/1991 a favore del datore di lavoro che assume, pur non essendovi tenuto, i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità non spetta all'affittuario del ramo d’azienda che, entro un anno, riassume i dipendenti collocati in mobilità dal precedente datore di lavoro.

  • Con la sentenza del 29.09.2011, n. 19912 la Corte di Cassazione ha ribadito che il licenziamento inflitto alla lavoratrice madre che ritarda di pochi giorni il rientro al lavoro in seguito al congedo di maternità è nullo, in virtù del disposto dell’art. 54, V comma, D. Lgs. n. 151/2001, ed alla nullità consegue, secondo le regole generali, la prosecuzione del rapporto di lavoro ed il diritto della lavoratrice alle retribuzioni.La Suprema Corte ha, inoltre, precisato che il divieto di licenziamento, che si estende dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento del primo anno di età del bambino, non opera unicamente nel caso in cui ricorra la colpa grave da parte della lavoratrice, la cui presenza deve essere accertata in relazione alle circostanze del caso concreto.

  • Con la sentenza del 02.05.2012, n. 6643 la Corte di Cassazione ha confermato il principio secondo cui al fine di distinguere l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, occorre verificare la sussistenza del vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici, oltre che dall'esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative. L'esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo.
    La Suprema Corte ha precisato, altresì, che lo svolgimento di controlli da parte del datore di lavoro è compatibile con ambedue le forme di rapporti, sicché assume rilievo ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato solo nel caso in cui i controlli siano finalizzati all'esercizio del potere direttivo e, eventualmente, di quello disciplinare; altri elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario, la localizzazione della prestazione e la cadenza e la misura fissa della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva, mentre la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti al momento della stipulazione del contratto può essere rilevante, ma certamente non è determinante.

     

  • La Corte di Cassazione con la sentenza n. 10688 del 03.05.2017 ha affermato il principio secondo cui, nei procedimenti disciplinari, non lede il principio di immediatezza di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, il datore di lavoro che, prima di procedere ad una contestazione disciplinare, disponga indagini ispettive per meglio approfondire natura e responsabilità passibili di sanzione ove a tal fine egli disponga, quali elementi conoscitivi, della sola confessione del lavoratore, essendo essa potenzialmente revocabile ex art. 2732 c.c.

  • La Corte di Cassazione, con sentenza del 11 settembre 2017, n. 21062, ha ribadito il principio sulla base del quale la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

    Inoltre, la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

  • Con la sentenza del 22.01.2013, n. 1478 la Corte di Cassazione ha richiamato il principio secondo cui la responsabilità dell'imprenditore exart. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.La Suprema Corte ha precisato, di poi, che nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a normadell'art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute.

  • La Suprema Corte ha affermato che, in relazione alla mancata corresponsione delle retribuzioni nel periodo di sospensione, nel contratto di lavoro - ove le prestazioni sono corrispettive, in quanto all'obbligo di lavorare dell'una corrisponde l'obbligo di remunerazione dell'altra - ciascuna parte può valersi dell'eccezione di inadempimento prevista dall'art. 1460 c.c., dovendosi escludere che alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro possa reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale a norma dell'art 1181 c.c. e con la richiesta di risarcimento. Ne consegue che, nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni ove ricorrano le condizioni dell'art. 1460 c.c..

     

  • Con la sentenza del 31.01.2012, n. 1405 la Suprema Corte ha ribadito che compete al giudice di merito valutare i fatti relativi alla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto: tale valutazione ha luogo secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità ma che risulta censurabile in Cassazione unicamente per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

  • Con la sentenza del 02.11.2011, n. 22695 la Corte di Cassazione ritiene corretto assicurare al lavoratore un minimo di provvidenze per il caso in cui il trasferimento del dipendente, pur comportando disagi per quest’ultimo e per la sua famiglia, non si accompagni al mutamento di residenza così come ritiene corretto ampliare in maniera adeguata gli interventi economici di sostegno qualora al trasferimento si accompagni anche il mutamento di residenza.

  • L'aliunde perceptum, da detrarre dal risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato e commisurato alle retribuzioni maturate nel periodo tra il licenziamento e il reinserimento nel posto di lavoro, si riferisce ai compensi conseguiti dal lavoratore reimpiegando la capacità di lavoro non impegnata nell'attività cessata a causa del licenziamento illegittimo, senza che rilevi la natura delle somme percepite, se cioè retributiva o assistenziale, e neppure se tali redditi siano assoggettabili a contribuzione. E' quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4146 del 21 febbraio 2011 nella quale il Giudice di legittimità afferma ancora che l'aliunde perceptum non integra un'eccezione in senso stretto e, pertanto, è rilevabile dal giudice anche in assenza di un'eccezione di parte in tal senso, ovvero in presenza di un'eccezione intempestiva, semprechè la rioccupazione del lavoratore costituisca allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche se per iniziativa del lavoratore e non del datore di lavoro (cfr. Cass. 21 aprile 2009 n. 9464).

  • Con la sentenza n. 23787 del 24 novembre 2010 la Corte di Cassazione ha affermato il principio della legittimità della compensazione tra diverse imposte finalizzata alla diminuzione o all'esclusione degli acconti. A tale asserzione è giunta interpretando le norme di cui all'articolo 1 della Legge n. 97/77 ed all'articolo 4 del d.l. n. 417/91 asserendo che "il raffronto tra tali disposizioni denota un allargamento verso l'ammissibilità della compensazione tra diverse imposte non essendo ripetuta la limitazione distintamente per ciascuna imposta".

  • Con l’importante sentenza n. 26039 del 15.10.2019, la Corte di Cassazione ha ribaltato un Suo precedente orientamento, sostenendo come l'assicurato che non abbia maturato il diritto ad un trattamento pensionistico in alcuna delle gestioni nelle quali è, o è stato, iscritto, ha il diritto di avvalersi dei periodi assicurativi pregressi in termini tali per cui la ricongiunzione, più vantaggiosa, ma anche più costosa per l'assicurato, può porsi come mera opzione rispetto ad altri istituti che consentano il conseguimento del medesimo obiettivo dell'utilizzo della contribuzione. Tale interpretazione dell'art. 1, comma 2, della L. n. 45 del 1990 riflette l'assenza di limiti, che discenderebbero dalla disomogeneità del metodo di calcolo, o che deriverebbero dal preteso allineamento alla previsione di cui allo stesso art. 1, comma 1 (che ammetterebbe la ricongiunzione solo "in entrata" della contribuzione accreditata presso le casse per i liberi professionisti), alla facoltà di avvalersi di tale istituto anche in alternativa agli istituti ulteriori e distinti del cumulo e della totalizzazione. 
    L'importante conseguenza dell'assunto è quella che debba ritenersi ammissibile la ricongiunzione dei versamenti effettuati presso la Gestione Separata dell'INPS a quelli versati alla propria Cassa di Previdenza. 

     

  • In tema di licenziamenti collettivi la Corte di Cassazione ha rilevato che ove il datore, nella comunicazione di cui all'art. 4, della L. n. 223/91 indicasse che tutto il personale in esubero è collocato all'interno dì un unico reparto, essendo solo questo oggetto di soppressione o di ristrutturazione, non sarebbe giustificato limitare l'ambito di applicazione dei criteri di scelta a quegli stessi lavoratori nel caso fossero addetti a mansioni assolutamente identiche a quelle ordinariamente svolte anche in altri reparti, salva la dimostrazione di ulteriori ragioni tecnico produttive ed organizzative comportanti la limitazione della selezione. Ed ancora, quando la riduzione del personale fosse necessitata dall'esistenza di una crisi che induca alla riduzione, genericamente, dei costi, non vi sarebbe, quanto meno in via teorica, alcun motivo di limitare la scelta ad uno dei settori dell'impresa, e quindi la selezione andrebbe operata in relazione al complesso aziendale

  • Con la sentenza del 22.06.2012, n. 10424 la Corte di Cassazione ha affermato i seguenti principi di diritto:a)     l’indicazione nella comunicazione agli organismi sindacali di avvio della procedura di licenziamento per riduzione di personale, dei profili professionali del personale eccedente, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, non è validamente integrata dalla sola indicazione delle generiche categorie degli operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti, mentre la conclusione, nell'ambito della procedura di consultazione, di un accordo tra il datore di lavoro e i sindacati sul licenziamento collettivo non può ritenersi idonea a rendere irrilevante, ai fin della legittimità dei licenziamenti, l'indicata carenza della comunicazione iniziale se l'accordo non contiene le necessarie indicazioni sui profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento;b)     è illegittima l'adozione, nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali relativo all'attuazione di licenziamenti per riduzione di personale, dell'unico criterio di scelta consistente nella prossimità al pensionamento, se lo stesso non permette l'esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento, in modo da poter essere applicato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

  • Con la sentenza del 18.09.2012, n. 15653 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui la nullità del licenziamento derivante dalla normativa di tutela delle lavoratrici madri comporta l'obbligo per il datore di lavoro di corrispondere alla dipendente le retribuzioni maturate anche in mancanza di richiesta di ripristino del rapporto, dovendo il rapporto ritenersi come mai interrotto.Come chiarito dalla Suprema Corte il licenziamento intimato in violazione della normativa in questione è, infatti, improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente deve essere condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento, in ragione dal mancato guadagno. La nullità è comminata per il solo fatto che il licenziamento viene intimato nell'arco temporale protetto, risultando, pertanto, tale declaratoria del tutto svincolata dalle motivazioni che l'abbiano determinato e, tra l'altro, indipendentemente dall'elemento psicologico del recedente.

  • Con sentenza n. 25145 del 13 dicembre 2010 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha affermato il segunte principio di diritto:"La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alleL. n. 604 del 1962, eL. n. 300 del 1970, non è applicabile, ai sensi dell'art. 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente". Sulla base di tale considerazione anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o una importante deviazione de dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull'immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento a norma della disciplina contrattuale dello stesso

  • Con la sentenza 07/10/2019, n. 24976, la Corte di Cassazione ha enucleato che «gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell'art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari, che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere, e che l'obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa  (nel caso di specie, confermando il licenziamento per giusta causa del lavoratore per avere il lavoratore comunicato il proprio stato di privazione della libertà personale soltanto il 14 giorni dopo il suo arresto)».